“HOUSE OF GUCCI”: IL POSSESSO, LA “POKER FACE” E IL VERO CINISMO

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di Mariantonietta Losanno 

“Quello di Patrizia è stato un dramma. Lei fa parte di quelle donne che sono state educate nella maniera sbagliata, nella convinzione che la sola cosa a cui pensare nella vita sia quella di sposare un uomo ricco. Donne che, sostanzialmente, fanno della loro vita una sopravvivenza, focalizzandosi sulla bellezza e l’apparenza per avere ciò che vogliono”, ha raccontato Lady Gaga in un’intervista. Una vita vissuta al massimo, lusso, feste esclusive e ville da sogno: Maurizio Gucci è stato la fortuna di Patrizia Reggiani. Come si può ridurre la complessità della vicenda raccontata da Ridley Scott all’idea che “i soldi non fanno la felicità”? Se si considerasse la storia dell’omicidio di Maurizio Gucci legandola (solo) all’aspetto economico, non si coglierebbero a fondo l’idea patologica di possesso, l’odio e il rancore che sono stati il reale movente dell’omicidio. “Dov’è il mio Maurizio?”, chiede disperata Patrizia quando non riconosce in lui lo stesso sguardo del primo incontro: è proprio il possesso che scandisce la favola nera ispirata al delitto Gucci del 1995. Non sono importanti le incongruenze con i fatti di cronaca, i film biografici non devono avere necessariamente un intento documentaristico e, quindi, non ci si può aspettare veridicità di fronte ad un’opera che vuole ricostruire i sentimenti e le emozioni di persone reali, non riscrivere la storia.

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E la storia è questa: Maurizio Gucci fu ucciso a Milano la mattina del 27 marzo 1995, a quarantasette anni. Era uscito dalla sua casa di corso Venezia alle 08:30 e, come ogni giorno, aveva percorso a piedi il breve tratto di tratto che lo separava dal suo ufficio. Il sicario che lo stava seguendo sparò quattro colpi e ferì il portiere del palazzo. Per quasi due anni le indagini girarono attorno alla pista finanziaria internazionale; eppure, elementi che avrebbero potuto spostare l’attenzione sull’ex moglie Patrizia Reggiani ce n’erano a sufficienza: da tempo, infatti, continuava ad usare il cognome Gucci (“l’unica vera Gucci sono io”, diceva) nonostante il divorzio fosse avvenuto fosse avvenuto nel 1994. Ed è stata poi la “Banda Bassotti” ad assolvere il compito di uccidere Maurizio Gucci al suo posto. Uccidere, in realtà, oltre che l’“uomo“, anche tutto quello che rappresentava per lei: aveva perso tutto quello che era riuscita (faticosamente) a possedere. Il successo, il potere, l’immagine. E, ancora, il rispetto delle persone “inferiori”, lo status sociale. Maurizio, quindi, rappresentava un’idea e a quell’idea Patrizia non voleva rinunciare. Da lì, allora, nacquero i deliri, le ossessioni, l’odio; ma se fosse tutto riconducibile ad una dissociazione mentale si sottovaluterebbe quanto il possesso possa essere stato reale. Tutto quello che ha spinto Patrizia a “riscattare” se stessa uccidendo Maurizio è scaturito da una follia lucida e ragionata. 

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Dalla seduzione all’odio: in quasi tre ore, Ridley Scott racconta la “sua” Patrizia Reggiani, un po’ caricaturale, ma efficace. Come può essere concepito “House of Gucci”: la celebrazione di una casa di moda o la (ri)contestualizzazione di un crimine passionale? Sicuramente, Scott calca la mano sui sentimenti, raccontando come le vicende familiari della famiglia siano state contraddistinte da irrefrenabili impulsi e passioni malate. “House of Gucci” racconta quel “mondo di mediocri” visto da più prospettive: i mediocri sono quelli che stanno “al loro servizio” e li invidiano, e sono poi loro stessi, che si distruggono a vicenda. Con quello sguardo che ha ispirato “American Gangster”, “Tutti i soldi del mondo” e il più recente “Last Duel”, Ridley Scott realizza una “farsa” grottesca perfettamente in linea con i protagonisti della vicenda: si concede qualche licenza cinematografica proprio per focalizzarsi sulla caratterizzazione dei personaggi (interpretati da un cast d’eccellenza) e per porre l’attenzione sulle motivazioni della faida familiare e non sulla ricostruzione storica. In questo “mondo di mediocri” non è possibile schierarsi: chi è realmente integerrimo? È tutto “contraffatto”, tutto decadente, tutto “sopra le righe”. “House of Gucci” rappresenta una sorta di melodramma all’italiana (un po’ commerciale) infarcito di stereotipi che ricorda “Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca)” di Ettore Scola o “Un borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli.