“NORMAL PEOPLE”: L’ANORMALITÀ, IL DOLORE, LA CRESCITA

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di Mariantonietta Losanno 

Molto più di un teen drama: “Normal people” è la storia di Marianne e Connell, due ragazzi che si incontrano al liceo e condividono lo stesso “pezzo di terra” – come se fossero due piante – crescendo l’uno vicina all’altra, contorcendosi per farsi spazio, a volte sostenendosi a vicenda, altre togliendosi il respiro. È la storia di un amore giovanile destinato (forse) a non compiersi mai, di due anime che si inseguono e si sfiorano per anni; ma è anche una riflessione sulla banale e feroce dolcezza di una relazione, sul coraggio di perdonare – e perdonarsi – e sulla difficoltà di riconoscersi e ritrovarsi. 

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“Le persone possono veramente cambiarsi a vicenda”, dice Marianne a Connell. Ci sono rapporti che insegnano a trovare la forza – ancora prima di cambiarsi – di essere se stessi. Il cambiamento è successivo, a volte talmente radicato da sembrare paradossalmente impercettibile, e si riesce ad averne consapevolezza solo quando si cresce. C’è un “prima” e un “dopo” per Marianne e Connell: c’è un prima che si conoscessero e un dopo che si sono conosciuti. Il loro incontro/scontro dal primo momento ha segnato le loro vite e, soprattutto, ha tracciato un legame (che non opprime, non uno di quei “Lacci” di cui parlava Domenico Starnone – e poi Daniele Luchetti – che tengono le persone insieme anche “dopo l’amore”) impossibile da spezzare. Nonostante si instauri immediatamente, non si presenta sin da subito come un rapporto “salvifico”. Perché a volte, mentre cerchiamo di non ferire qualcuno, in realtà stiamo facendo più male a noi stessi. E, ancora, quando cerchiamo di scoprire noi stessi “aggrappandoci” ad un’altra persona ne diventiamo dipendenti; starsi vicino, allora, si trasforma in bisogno di sentire la presenza dell’altro e, in alcuni casi, la dipendenza può diventare persino patologica. 

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Marianne e Connell “si sono fatti del bene”, ma per arrivare a capirlo affrontano – e subiscono – varie fasi. Prima di tutto, l’adolescenza: la vergogna, gli atti di bullismi (subiti e ricevuti), la difficoltà di voler essere capiti, i rifiuti. Crescendo, poi, subentrano le ansie, la solitudine, i dubbi sul “sapere amare” e sull’“essere degni d’amore”, persino la depressione. In tutte queste fasi, Marianne e Connell si sentono, si frequentano, si raccontano i loro insuccessi, le loro relazioni, i loro progetti; mantengono, cioè, un legame di presenza/assenza come quello di Emma e Dexter in “One day” che, da “un giorno” – anzi “quel” giorno – si sentono, si scrivono lettere, si perdono, si respingono e si ricongiungono. Forse, allora, Marianne e Connell “non si sono fatti del bene” sin dall’inizio, ma dal loro incontro sono cambiate le loro vite; hanno imparato ad avere il coraggio di ammettere di “non sentire niente”, di sentirsi indegni o di volersi estraniare da se stessi, la forza di non chiedere scusa quando ci si sfoga. 

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Lasciarsi vuol dire realmente perdersi? Due anime affini, due persone “non ordinarie” che riescono ad esserlo solo stando insieme, si possono perdere davvero? Un rapporto può trasformarsi – se si ha la volontà di evolvere – in un qualcosa che si mantiene in vita anche non per forza alimentato quotidianamente. Il modo in cui Marianne e Connell si guardano, si ascoltano, si toccano, si respirano è di una potenza fuori dal comune, anche nei momenti in cui si “auto-sabotano” a vicenda. Perché entrambi sono autodistruttivi, entrambi sono uniti da un “mal di vivere” vissuto in modo diverso, entrambi sono distanti dal mondo circostante. Proprio perché lontani dal mondo attorno a loro, spesso fuggono: la loro vita sessuale è uno strumento per isolarsi dall’esterno preferendo l’interno “sicuro” che hanno costruito insieme e che pertanto conoscono. “Normal people” racconta di un percorso di formazione “senza formazione”, dove i protagonisti sono legati (anche) a ciò che li fa soffrire. È anche vero, però, che i legami così stretti (quelli “che cambiano la vita”) nascondano spesso una dose di “tossicità” se vissuti per compensare le proprie mancanze e non per affrontarle autonomamente. Dal primo momento in cui una fragilità viene compensata dall’altro impedendo che avvenga in modo indipendente, si instaura un legame che diventa (anche) di dipendenza. Resta, però, il fatto che “si sono fatti del bene” perché, tutte le volte che si sono feriti hanno anche avuto la forza di curarsi, più o meno reciprocamente, più o meno consapevolmente.