Tony Negri, il cattivo maestro

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di Vincenzo D’Anna*
Si è spento a Parigi, all’età di 90 anni, Toni Negri al quale molti attribuiscono, come professione, quella del filosofo e dello scrittore. Intendiamoci: non sono certo, queste, attribuzioni usurpate, oppure false, essendo stato egli un docente universitario nonché l’autore di decine di saggi letterari e pubblicazioni sul comunismo e sullo Stato. Tuttavia l’attività preminente del nostro scrittore, quella più significativa nella sua vita longeva, di sicuro molto più lunga rispetto a quella delle numerose vittime della violenza e del terrorismo che pure egli spalleggiò ed eterodiresse con le proprie tesi rivoluzionarie, fu quella del combattente e dell’eversore comunista. Fu sulla base, infatti, di quella precipua attività, svolta negli anni del fulgore intellettuale, che Negri ebbe a guadagnarsi il titolo di “cattivo maestro”. Studioso del Marxismo e dell’Operaismo, l’accademico padovano allevò e plagiò centinaia di allievi, instillando in loro l’idea che lo Stato democratico di stampo capitalista dovesse essere  abbattuto, eradicato fin dalle fondamenta, in quanto pronubo di un sistema di diffuso sfruttamento della classe proletaria a vantaggio dei potentati economici, ossia dell’imperialismo . Questi ultimi venivano catalogati non solo nella categoria degli imprenditori, ma in un più vasto contesto politico e sociale individuato nei partiti tradizionali dell’epoca, nei sindacati e nelle stesse istituzioni parlamentari. Nacque con lui l’idea che la politica potesse essere solo di tipo extra parlamentare e che l’ideologia di cui si faceva fautore, quello dello Stato comunista a trazione operaia, dovesse essere imposta con la forza. Una forza rinnovatrice della società da crearsi attraverso il movimentismo nelle università, nelle scuole e nelle fabbriche, che avrebbe costituito l’ossature di formazioni rivoluzionarie che propugnavano e imponevano la lotta di classe. Insomma: quello che Negri auspicava era la scomparsa progressiva del sistema liberale e liberista, del ceto borghese a vantaggio delle classi lavoratrici unica espressione degna di gestire il potere e dirigere le istituzioni secondo l’applicazione dei dettami del marxismo leninismo. Passando dal dire al fare grazie a lui nacquero “Potere Operaio” ed “Autonomia Operaia” i due movimenti che lo riconobbero come ideologo e maestro e nelle cui fila furono allevati parecchi militanti passati poi alla clandestinità e nelle Brigate Rosse, la formazione terroristica che insanguinò l’Italia negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Negri insomma fu un mandante morale che non si macchiò mai direttamente le mani di sangue ma che seppe alimentare culturalmente quegli schieramenti politici rivelatisi poi, a lungo andare, palestre di devianze terroristiche con l’attacco allo Stato ed vari rappresentanti della società italiana. Caddero sotto i colpi inferti dai militanti della stella a cinque punte magistrati, politici, giornalisti, forze dell’ordine, dirigenti di azienda e sindacalisti, ritenuti, a vario titolo, esponenti di categorie professionali e sociali che ostacolavano la conquista del potere da parte della classe operaia. Un intero sistema complice e reazionario. Certo ci furono anche altre formazioni eversive a svolgere un analogo ruolo sanguinoso come, ad esempio, Lotta Continua da cui pure emersero futuri aderenti e capi delle BR ma l’intellettuale di spicco di quell’epoca rimaneva sempre lui: Tony Negri, insieme con gente del calibro di Adriano Sofri e Roberto Curcio. Erano quelli i tempi ereditati dalle rivolte studentesche del 1968 dalla contestazione generale che aveva come emblema il mantra “vogliamo tutto e subito” e del “potere a chi lavora”. Anni di grande e confuso cambiamento nei quali si rompevano vecchi lasciti morali, sociali, religiosi e politici di un’Italia che aveva da poco superato il boom economico e si era risollevata dalle miserie morali e materiali post belliche raggiungendo un diffuso benessere e stili di vita mai visti prima. Era quella l’epoca della rivoluzione culturale cinese di Ma Tze Dong, della guerra in Vietnam (persa dagli “imperialisti” americani) e dell’idolatria del governo rivoluzionario sovietico, di metodologie politiche da importare da quelle  particolari  esperienze storiche che andavano di moda  verso l’Est, oltre la cortina di ferro. Non furono pochi i cosiddetti intellettuali, i radical chic, che tennero bordone a queste idee, quelli che, in seguito, affermarono di non stare né dalla parte dello Stato né da quelle delle Brigate Rosse. “Pensatori” che  definirono molto generosamente  le BR come composte  da “compagni che sbagliano”.  Solo l’unità delle forze politiche democratiche, dei sindacati e dei rappresentanti delle categorie sociali riuscì a resistere a quello scontro ed alla tremenda onda d’urto della violenza proletaria, pseudo rigeneratrice della nazione. Per ironia della sorte, alla fine, così come non furono pochi quelli che non pagarono un caro prezzo per questa collaborazione morale e fattuale con quell’ambiente, ce ne furono altrettanti che finirono, invece, a dirigere giornali, reti televisive e aziende di Stato riciclandosi nelle fila di quegli stessi partiti e di quelle stesse istituzioni che pure avrebbero voluto sbaragliare o radere al suolo. Tony Negri, a differenza di queste mosche cocchiere della rivoluzione, non si riciclò mai ma scontò dodici anni di galera. Comunque siano andate le cose, non credo che  Negri sarà rimpianto, né che la sua lezione abbia lasciato emerite  e durevoli tracce. La storia lo ricorderà solo per l’erroneo e tragico credo politico e  per la scia di lutti e di sangue che n’è derivata.
*già parlamentare