LA PALUDE RIFORMISTA

0

d anna 150x150 LA PALUDE RIFORMISTA  

–   di Vincenzo D’Anna*   –                                                                   

La nostra Costituzione, promulgata nel lontano 1 gennaio 1948, ha raggiunto una ragguardevole età. La legge di tutte le leggi è carente ed in parte anacronistica in alcuni suoi punti essenziali quelli, per intenderci, che riguardano la seconda parte della Magna Carta, ossia la “sezione” che descrive il modello di Stato ed i meccanismi democratici attraverso i quali lo si realizza. Da qui l’esigenza, da più parti invocata, di intervenire con un moderno restyling. Un’esigenza, si badi bene, sentita da pochi ma che influisce sui molti e per quanti tentativi siano stati fatti finora, non è mai stata portata a compimento. Trattandosi di stabilire nuove regole del gioco valide per tutte le forze politiche, la Costituzione potrà essere modificata solo al verificarsi di determinare condizioni: una larga maggioranza parlamentare pari ai due terzi delle Camere oppure, qualora questo quorum non fosse raggiunto, mediante la ratifica di un referendum. Quest’ultimo accerterebbe, in maniera inequivocabile, che il popolo ha approvato e condiviso i cambiamenti proposti da Montecitorio e palazzo Madama. Abbiamo più volte scritto che le insufficienze e le omissioni presenti nella suprema legge dello Stato altro non sono che l’espressione di un compromesso raggiunto dai padri costituenti, necessitato dal fatto che l’Assemblea Costituente, costituita da cento eletti, fosse composta da due blocchi politici antagonisti: le forze di matrice cattolica e liberal democratica da una parte, quelle social comuniste dall’altra. Un equilibrio che non consentiva a nessuno dei due schieramenti di prevalere sull’altro, imponendo il proprio modello di Stato, di economia e di società. Un altro freno al decisionismo di parte proveniva dal fatto che i costituenti fossero all’oscuro dei risultati elettorali delle elezioni politiche che sarebbero venute in seguito. In poche parole non sapevano quale dei due blocchi si sarebbe vista assegnare la vittoria nelle votazioni per la prima legislatura del neonato parlamento repubblicano. Ne venne fuori un onorevole compromesso che definì perfettamente, nella prima parte della carta costituzionale, tutti i diritti ed i doveri nonché le restanti prerogative riservate ai cittadini. La parte che, invece, riguardava la struttura politico istituzionale dello Stato restò ambigua, uno “stato di necessità” indotto dalla paura che qualcuno, entro le istituzioni, potesse gestire un potere decisionale preponderante. Dopo venti anni di dittatura fascista e la precarietà degli equilibri politici del tempo induceva ad esorcizzare la possibilità che si instaurassero dei nuovi poteri forti. Se oggi in Italia non c’è alcuna autorità in grado di determinare scelte lo si deve a questa paura. Insomma occorreva realizzare un modello di Stato nel quale nessuno potesse mai poter decidere da solo. Una condizione ben diversa dalle democrazie occidentali, lontana anni luce, ad esempio, da quella degli Stati Uniti d’America promulgata a Filadelfia nel lontano 1787, composta da pochi articoli ed imperniata intorno alle libertà dei cittadini con lo Stato messo al servizio dei medesimi. In quella nazione il liberalismo aveva ispirato la redazione della Costituzione, creato uno Stato snello ed efficiente, con a capo un presidente munito di precisi poteri e che nel suo studio alla Casa Bianca vede affisso un cartello su cui è scritto: “lo scaricabarile (la responsabilità, ndr) finisce qui”. Una costituzione ben diversa da quella che fu promulgata a Parigi nel 1791, dopo i moti rivoluzionari, e che pure ha ispirato quelle delle democrazie europee, nelle quali è lo Stato il depositario delle libertà, oltre che dei diritti, concessi ai cittadini. Uno Stato che quindi può assumere le vesti pervasive ed impositive del padre padrone., ancorché inefficiente. Una burocrazia, ad esempio, che dopo una settimana non riesce a definire l’esatto numero di voti espressi alle regionali in Sardegna!! Venendo ai nostri giorni il governo Meloni dice di voler cambiare almeno quella parte che riguarda le regole per eleggere l’esecutivo di governo, con l’elezione popolare del Primo Ministro, ossia l’introduzione del cosiddetto “premierato” che prevede che il Presidente del Consiglio sia scelto direttamente dal popolo e non sia frutto di intese e compromessi parlamentari. Tanto è bastato perché le eterni vestali della conservazione gridassero allo scandalo, affacciassero pericoli dittatoriali ed una minaccia per il regime democratico parlamentare. Insomma il ricreare quel clima di paura che sparge dubbi sui nuovi principii costituenti di uno Stato che fa uso della democrazia diretta. Timori immotivati, sfiducia preconcetta nella capacità che il popolo possa scegliere senza altre intermediazioni. Pensieri questi ultimi tipici dei conservatori che paradossalmente vengono messi a terra dai cosiddetti progressisti, ossia da coloro che, ad ogni piè sospinto, ci propongono radicali cambiamenti di valori e di costumanze civili, attraverso quel furbesco espediente sociologico e filosofico chiamato “politicamente corretto”. Insomma pseudo rivoluzionari nel sociale schierati però con l’ancien regime costituzionale. Ovviamente il gioco è tutto politico oltre che miseramente legato alle contingenze del momento, al fatto che la Destra governi, fatto insopportabile per coloro che il voto lo esaltano quando vincono e lo disprezzano quando perdono. Che dire? Il nostro è ormai un triste destino che si trascina nel tempo: costretti a vivere in una palude ove può affondare lentamente ogni reale anelito di cambiamento.

*già parlamentare