Dean Corso (interpretato da Jhonny Depp) è un esperto di libri rari. Viene ingaggiato per porre a confronto le tre uniche copie esistenti di un manuale d’invocazione satanica. Non è la prima volta che Polański si misura con questo genere di cinema: in “Rosemary’s baby”, una sorta di incubo cinematografico, si riferisce al Male, all’irrazionale, al diabolico. È una pellicola in cui non ci si orienta tra reale e fantastico, domina la sensazione di angoscia ed inquietudine. “La nona porta” è un successivo tentativo di film satanista, non paragonabile però a “Rosemary’s baby”: Polański ripropone temi a lui cari ma non pienamente sviluppati. Non ci sono le ambientazioni claustrofobiche e anguste de “L’inquilino del terzo piano”, né l’ambiguità di “Rosemary’s baby”. Le location sono suggestive, simili a quelle di “Eyes Wide Shut” (ultima opera di Stanley Kubrick), ma molte figure risultano buffe, più che spaventose. “La nona porta” non fornisce tutte le risposte necessarie, i colpi di scena sono dosati e non sorprendenti, l’intreccio non risulta efficace e la sensazione di spaesamento tende a disturbare piuttosto che ad affascinare.La dimensione umoristica prende il sopravvento: Jhonny Depp, il prescelto di Satana, non convince; anzi, il protagonista sembra avvertire la stessa confusione che prova il pubblico, che tenta in tutti i modi di trovare una chiave di lettura brillante che sciolga l’enigma. La sensazione prevalente è l’attesa: lo spettatore aspetta impaziente l’arrivo del vero colpo di scena, quello che potrebbe stupirlo, spaventarlo (ci riferiamo al genere di paura che Polański ha sempre saputo far scaturire) e convincerlo della credibilità del film. Il regista scivola su luoghi comuni e addirittura sfiora la parodia. Se in “Rosemary’s baby” il Male era qualcosa di oscuro e insondabile, ne “La nona porta” la sua presenza è fin troppo concreta, quasi scontata. Le intenzioni erano buone, le aspettative erano alte, il risultato però crea incongruenza.
A malincuore bisogna ammettere che la pellicola di Polański sembri irrisolta, piuttosto che stimolante. Non suggerisce molte riflessioni o punti di vista interessanti. Eppure, in altre opere del regista polacco non c’era bisogno del suo intervento per comprendere l’essenza; l’interpretazione è sempre stata volutamente libera, e lo spettatore è sempre riuscito a elaborare una personale riflessione pur trovandosi in atmosfere cupe in cui dominava la follia. “La nona porta”, dunque, si presenta come un’indagine inizialmente piacevole da seguire ma senza un eccessivo fascino, a meno che non si visioni con una diversa predisposizione evitando l’(inevitabile) paragone con precedenti e brillanti opere di Polański.
Mariantonietta Losanno