AMEDEO LASSAFADIO – terza ed ultima puntata

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  –   di Elvio Accardo   –OLTRE IL MURO AMEDEO LASSAFADIO – terza ed ultima puntata

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PRIMA PUNTATA

SECONDA PUNTATA

L’alba brumosa si era trasformata in un mattino nuvoloso, e una pioggerellina fitta e fredda ingrigiva il lungo muro scalcinato sormontato da filo spinato, di fronte alla finestra sbarrata della baracca. Don Pietro disse: “Hai paura Amedeo?”, “Non so se ho paura o fame, come se la pancia fosse un gran buco pieno di vento freddo”. Rispose don Pietro “Io ho paura, paura vera, paura che mi viene dall’anima”, “Tu te si prete, ti te ghè cristiano con l’anima buona”.  “Non ho paura di morire sai?, ho paura di morire in peccato, questo mi spaventa”, disse don Pietro, “non salverò più la mia pecorella smarrita, ho abbandonato i miei parrocchiani, senza mantenere la mia promessa di portarti in salvo, questo pesa sulla mia anima, questo è quello che Cristo non può perdonarmi, io sono prete, ho preso i voti, come se avessi fatto un sacro giuramento e sento di aver tradito tutto questo, dovrei confessarmi davanti ad una autorità della chiesa, chiedere perdono con il sacramento della penitenza e chiedere la riconciliazione con Dio, ecco, questo mi fa paura”. Amedeo si avvicinò al prete , la sua faccia sporca di sangue secco e i suoi occhi blu pieni di luce, sembravano usciti da una antica storia di martiri, disse in veneto senza più balbettare: “Gò paura anca par mi, anca se so morto altre volte, mi so giudeo e o tegno scritto in dosso, in mèso a e gambe, e no se pol canceàr, no so se podarò mai diventar cristian co sta cicatrice che vedo ogni giorno, ma me piasaria”. Don Pietro prese la mano di Amedeo si aiutò a mettersi in ginocchio e poi disse: “ Tu, prima di essere giudeo, io prima di essere cristiano siamo creature di dio, uomini fatti a sua immagine, portatori di vita e di Grazia Divina, e in nome di questo chiedo che tu mi assolva dal mio peccato, Cristo è morto  per me e anche per te, per tutti gli uomini”. Amedeo si chinò su don Pietro lo baciò e disse, asciugandosi le lacrime che scivolando sulle guance si mischiavano al sangue diventando rosse:” mi te perdono da giudeo e da cristiano, mi te perdono da òmo, òmo di Dio”.

Due esse portarono don Pietro dal comandante del campo, la pioggia devenne incessante, Amedeo rimase solo nella baracca. A don Pietro chiesero dove era nascosto il proprietario della pistola americana,  ritrovata accanto ai suoi uomini uccisi quella notte, don Pietro  con calma sorrise, poi il tenente dell’autoblindo, anch’esso presente all’interrogatorio chiese chi era “Michele”  nominato nella lettera trovatagli addosso, don Pietro sorrise di nuovo, infine il tenente chiese frustandogli la guancia con un frustino da cavallo di chi fosse la firma C.C. in fondo allo stesso biglietto, e allora don Pietro ancora sorridendo disse: “ Corpus Christi “. Due soldati accompagnarono don Pietro davanti a quel muro che Amedeo vedeva dalla baracca, mentre un plotone di soldati si preparava alla esecuzione, don Pietro alzò timidamente la mano chiedendo un attimo di tempo, si inginocchiò e si tolse la scarpa dal piede rotto, gonfio e livido, poi disse sottovoce guardando la finestra sbarrata, rivolto ad Amedeo che piangeva in silenzio: “Non piangere Amedeo, lassafadio, lassafadio”. Una scarica lo buttò per terra, mentre altri cinque presero il suo posto, quella mattina furono uccisi altre venticinque persone, contadini e operai rastrellati nei dintorni.

Il capitano Johnny Blesso, aspettò l’alba, l’aria gelida lo scosse dal torpore in cui si trovava per l’abbondanza di sangue perduto, il dolore alla gamba era aumentato e ogni movimento, da quella posizione in cui era costretto a stare, aumentava la sofferenza. Udì dei rumori provenienti dal lato del torrente, dove il sentiero sbucava, proprio dove aveva teso l’agguato. Erano rumori nuovi, diversi, alcune voci di donne, e poi l’inconfondibile verso fatto da una voce maschile per incitare un cavallo in uno sforzo. Non era un cavallo, ma un asino che trascinava sul sentiero in salita della scarpata, un carrettino, due donne avanti negli anni seguivano e un vecchio tirava le redini davanti al somaro. Il vecchio fermò l’asino e le donne, aveva scorto per terra le grosse chiazze di sangue lasciate dai soldati uccisi, indicò loro, nella rada erba altre macchie, che portavano più avanti, lasciò l’asino con il carrettino e insieme alle donne si avviò cauto nella direzione dell’albero dove il capitano Johnny era nascosto. Si fermarono sotto il grosso ulivo, vi girarono intorno, il capitano trattenne il respiro, ma il vecchio trovò le tracce che portavano sull’albero, sul vecchio tronco grigio il sangue appariva come pennellate, la donna con un fazzoletto nero che le fasciava la testa, indicò col dito verso l’alto e disse a bassa voce mentre il vecchio tornava verso il carretto: “Vui pure site surdato taliano?, nun ve muvite, site ferito?, mo viene mio patre cu la scala e ve piglia”.  Il capitano Johnny, si rilassò, le lacrime uscirono senza accorgersene, poi disse: “Grazie”.

Il carretto su cui era sdraiato il capitano, era ingombro di teli, cesti, e una lunga scala, di cui si era servito il vecchio per aiutarlo a scendere dall’albero. Erano andati nell’uliveto a cogliere quanto potevano delle olive, che ormai cadevano per la passata maturazione, senza che nessuno le cogliesse. Le donne seguivano il carretto, e il vecchio teneva le redini camminando a fianco all’asino, mentre parlava con i teli e i cesti sotto cui il capitano era disteso, cominciò una pioggerella sottile e fredda. Il capitano raccontò rapidamente come era arrivato lì, disse dell’aiuto che aveva ricevuto da don Pietro e Amedeo che si erano lasciati inseguire salvandogli la vita, ma purtroppo aveva visto i suoi amici presi dai tedeschi e portati via qualche ora prima, lui non sperava di salvarsi, sarebbe rimasto sull’albero chissà quanto se non fossero arrivati loro. Il carretto superò il torrente e quando fu sulla strada il vecchio si fermò e disse: “Chigliu povero cristo è amico vuostr?” il capitano Jhonny alzò il telo e guardò: quello che restava di coppola rossa era ancora appoggiato alla ruota dell’autocarro. Muti attraversarono la provinciale che andava a Sparanise, proseguendo per un tratturo verso una masseria invisibile dalla strada perché posta dietro un dosso della collina con un boschetto di lecci e sambuco. Quando arrivarono, le donne caricarono il capitano su una vecchia carriola di legno e lo portarono in un fienile dove altri due militari italiani “sbandati” dopo l’8 settembre, erano nascosti già da una settimana. Aiutarono il ferito a sistemarsi quanto meglio si poteva nel gran mucchio di fascine di steli secchi di lupino, uno di loro disse: “Are you english?”  “No, sono americano” prese dal taschino della sua giubba le lucky strike, e le offri a tutti, anche alle donne, il vecchio prese la sigaretta e rivolto alla figlia disse: “Cheste sicarrette le astipammo pe’ lu ricordo e sta jurnata, ‘Ngiuli’, porta na tazza d’aulive ‘nfurnate e nu bicchiere ‘e vino. Chest’è rimasto capità, tutto se so’ pigliate chisti malagente, galline, puorco, noci, castagne, farina, tutto, tutto sul’ ’o ciuccio è rimasto, sta ancora cà pecchene aggio’ da purtà a legna al comando tedesco tre vote a semmana. Non ce sta spirito ne fasce pe la vostra ferita, ne dottori pe farve curà, ma se vuie state qua vuol dicere che ne arriveranno autri d’americani, e lassa fa a dio ‘ngiulì, lassa fa dio.”

Un po’ di chilometri verso nord, Amedeo aveva assistito alla fucilazione di don Pietro e anche di altri poveri disgraziati rastrellati nelle campagne a sud di Sparanise. Appoggiato alla parete di legno della baracca, sentiva salire il disagio che ben conosceva, il respiro divenne faticoso e rantolante, mentre le sue gambe si irrigidivano, il tremore alle labbra gli impediva di pronunciare le preghiere che conosceva. La porta si spalancò, due esse esse lo presero e lo trascinarono fuori colpendolo ai fianchi, lo spinsero ad ogni passo perché le sue gambe rigide gli consentivano solo brevi passettini che sembravano un balletto comico, entrarono nella baracca del comando, l’ufficiale tedesco chiese in italiano stentato: “Dove nascosto tuo amico americano?” Amedeo tremava, la sua schiena voleva inarcarsi, sentiva come un violento sibilo negli orecchi, balbettò non poco poi disse: “Amedeo lassafadio, nome mio”. L’ufficiale gridò: “Non voglio tuo nome, voglio spia americana, abbiamo preso radio trasmittente in autocarro, voglio spia americana dire dove sta, adesso?” Amedeo sapeva di morire come don Pietro, tentò di rispondere, ma le parole non uscirono, la mandibola sembrava paralizzata, uscì solo un rantolo e un lungo filo di bava che gli scese nel collo mentre strabuzzava gli occhi. Il comandante rivolto a tenente disse in tedesco: “Ich mòchte ein terapieshooting, ich bin sicher, dass err vorgibt”. Amedeo fu subito trascinato davanti al plotone, i cadaveri di chi l’aveva preceduto erano ancora lì per terra davanti a quel muro imbrattato di sangue e crivellato di buchi.  Gli legarono le mani ad un anello di ferro nel muro, sopra la sua testa, cercò con gli occhi don Pietro tra i cadaveri ma non lo scorse, l’attesa fu breve, sentì solo che s’era bagnato le gambe d’urina, poi la tremenda scarica di fucileria, e il suo corpo si abbandonò appeso solo per i polsi, senza sensi all’anello di ferro.

“Voglio una fucilazione terapeutica, sono sicuro che finge”, questo era l’ordine dato al tenente, una finta fucilazione, infatti tutte le pallottole colpirono il muro al disopra dell’anello di ferro, procurando nel condannato uno stress tale da annientare ogni resistenza all’interrogatorio. Ma per Amedeo non fu così, la tremenda prova lo trascinò in uno stato di incoscienza stabile, dovuto al “vento dell’obice” la sua malattia contratta nel bombardamento del porto di Venezia. Rimase sul pavimento della baracca nell’incoscienza fino al giorno dopo, quando le truppe inglesi e americane entrarono nel campo di concentramento. I tedeschi avevano ricevuto l’ordine di evacuare il campo partendo immediatamente per una posizione difensiva posta più a nord di Sparanise. Andati via nel pomeriggio in fretta e furia, scappando sui loro camion, abbandonarono prigionieri e mezzi che non poterono portare via. Incendiarono le baracche, ma i prigionieri riuscirono a spegnerle. Gli alleati erano giunti nel campo all’alba, dopo un cannoneggiamento durato tutta la notte. Portarono Amedeo in un ospedale militare inglese dove dopo pochi giorni riprese la sua stabilità mentale, ma mai più quella fisica, i suoi rimasero sempre dei passettini brevi e comici, la parola sempre biascicata anche se parlava veneto.

Alle sei del mattino nella grande chiesa di San Michele a Volla, don Carlo Capocelatro in ginocchio sul primo gradino dell’altare, pregava. La luce del giorno stentava ad entrare attraverso le vetrate colorate della navata, solo due lampade illuminavano i ricchi decori ad intarsio di marmi colorati dell’altare. I passi di Salvatore echeggiarono tra le sedie e gli scranni, don Carlo non si girò, aspettò che arrivasse accanto a lui. Salvatore si inginocchiò e disse sottovoce: “Buongiorno don Carlo”, “Buongiorno Salvatò, aspetta” disse il vecchio prete avvicinando l’indice al naso imponendogli il silenzio. Si alzò, attraversò la chiesa tra i banchi, ed entrò nell’antico confessionale, Salvatore lo seguì, e si inginocchiò dietro la piccola grata dello sportellino, e disse: “Don Carlo, il vostro orfanello di Mondragone, adesso è orfano, è diventato orfano un’ora fa, coppola rossa l’aveva lasciato detto agli amici di stare attenti a quell’infame di Reginaldo Russo, stava nascosto ad Afragola  nella panetteria del cognato l’hanno messo nel forno insieme al pane”. Don Carlo dopo un lungo silenzio disse: “Pace all’anima sua, avevo avvisato coppola rossa che al fascicolo dell’interrogatorio dei macchinisti mancava una parte, proprio quella che riguardava l’interrogatorio sulla resistenza. I due sospetti partigiani, i macchinisti voglio dire, non si fucilano per cinque pecore, l’hanno torturati fino a che non hanno fatto il nome di coppola rossa e della sua missione con il capitano americano, po’ l’hanno scannati ‘dint’o’ cesso do’ comando della milizia. Salvatò nun t’o’ scurdà, orfani si nasce”.

Il capitano Johnny, salvò la vita, ma non la gamba, il chirurgo che lo operò in un ospedale da campo delle retrovie, non riuscì a fermare l’infezione, ma la guerra per lui finì, tornò a Rock Port, sulla costa californiana, dove lo accudì amorevolmente la sorella Melinda proprietaria insieme a lui dei cantieri navali “Blesso & Blesso”, dove si costruivano panfili e yacht. Il capitano Johnny cominciò a bere, non accettò mai la sua menomazione. Morì in un letto d’ospedale cinque anni dopo, a seguito di un grave incidente stradale. Consegnò una lettera a Melinda nella quale ringraziava colui che con il sacrificio della sua vita, aveva salvato la sua. Quest’uomo era un italiano di Venezia, si chiamava Amedeo, era diretto a Teano. Chiese alla sorella di cercarlo e se l’avesse trovato vivo, sopravvissuto alla guerra, avrebbe dovuto abbracciarlo per lui come aveva fatto sull’albero di ulivo.

Amedeo arrivò a Teano insieme alle truppe americane qualche tempo dopo, fu impiegato nella ricostruzione della strada che dalla stazione portava al paese distrutta dalle bombe, lavorò da fabbro, che svolgeva in una casupola adibita a deposito per gli attrezzi. Costruita dai soldati americani proprio al colmo della scarpata, proprio dove finivano le case e cominciava la salita. Rimase a vivere lì, a forgiare zappe, aratri e vanghe ai contadini del circondario, percorreva sempre in silenzio il sentiero lungo i binari per raccogliere carbone caduto o lasciato lì dagli amici macchinisti di locomotive. Sotto quella scorza nera di fuliggine, Amedeo era rimasto prestante, il suo viso portava i segni delle esperienze passate, ma lo rendevano a suo modo bello, gli occhi erano più intensi e mutevoli come il tempo, passando tra vari toni di blu. I capelli rossi, con le polveri di carbone erano color rame, un po’ matto, come quei pentoloni stagnati. A torso nudo davanti all’officina, mentre picchiava col suo martello sulla lama di una zappa, arrivò don Paride il prete di Teano scalo, dietro di lui una donna con un largo vestito bianco a fiori gialli, un gran cappello di paglia con nastro bianco intorno trattenuto sulla testa con una manina guantata, per un venticello tiepido, che spirava quella mattinata d’aprile. Don Paride disse solo poche parole ad Amedeo, poi la donna si avvicinò e lo abbracciò, Amedeo l’abbracciò a sua volta dicendo con un tono appena più alto: “Si, si, so mi Amedeo lassafadio, lassafadio” la donna aveva i capelli color miele e si chiamava Melinda Blesso.

2 Commenti

  1. Gentile Federica,
    la ringrazio per il chiarissimo commento che rivela il suo coinvolgimento nella trama del racconto, la invito a leggere , se vuole, sempre su Appiapolis, gli altri racconti da me già pubblicati sulla stessa testata . Ne troverà una dozzina, o di più non ricordo. Primavera prossima uscirà la terza edizione di un mio romanzo
    già pubblicato ,col titolo :” Il totano ricchone”, seguirà, ” Corecurall”. qui mi fermo e le invio cordiali saluti.

  2. Un grande racconto che testimonia le grandi capacità descrittive dell’autore. Le atmosfere e i paesaggi sono resi con efficacia e coinvolgono il lettore al punto tale di farlo sentire all’interno dello scenario rappresentato. Grazie ad Appiapolis per questo regalo domenicale !!!!!! Esistono libri dell’autore da poter acquistare?

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