UN IRLANDESE DI NOME SABÙ

0

  –   di Elvio Accardo   –  setter irlandese UN IRLANDESE DI NOME SABÙ

La prima anguilla urtò, contorcendosi, il margine del vecchio ombrello infilzato aperto sulla riva del ruscello e cadde tra l’erba. Caterina, gridando di gioia, subito spostò la lampada e l’anguilla apparve riflettendo a lampi la luce nell’ombra nera dei ciuffi di mentuccia d’acqua che profumavano la riva e la notte umida senza stelle. Suo padre trafelato e allegro, con un buffo saltello, mollò la canna sull’erba rorida d’acqua e agguantò il viscido fuggitivo, e con un solo e rapido gesto lo lanciò nel nero ombrello, dal quale l’anguilla non poteva più uscire. Caterina alzò in aria il pugno in segno di vittoria, e il padre ponendo la matassa di lombrichi appesa alla canna nella corrente la invitò a fare altrettanto con la sua, spostando il cono di luce della lampada a batteria nell’acqua, per richiamare altre anguille, che sicuramente erano in cerca di cibo tra i sassi del fondo, i rami secchi e la vegetazione che dalla riva entrava in acqua. Un breve temporale aveva accompagnato Caterina e suo padre che in auto avevano raggiunto la casa di campagna, posta sulle colline intorno alla città dove lei viveva con la mamma e dove il padre tornava ogni fine settimana, per stare con lei.

Valerio Morrone era il nome del padre di Caterina, discreto musicista, compositore di musiche da film, lavoro affascinante che lo teneva impegnato a Roma, dove viveva da dieci anni.

Aveva divorziato dalla moglie Silvia Corradini, madre di Caterina, due anni prima, un divorzio che le aveva consentito di vivere con un suo collega docente di matematica nello stesso liceo dove insegnava filosofia.

Valerio aveva lasciato libera Silvia mantenendo con lei ottimi rapporti che gli consentivano di dividere con la figlia spazi straordinari, dove nessun altro poteva entrare. Uno di questi spazi era la casa di campagna, dove riusciva a dare la parte migliore di sé, sperando con tutto il cuore di colmare i danni provocati dal divorzio.

Dopo il temporale, il cielo era rimasto senza colore, solo i toni verdi della collina e del bosco erano diventati brillanti, la terra aveva subito assorbito l’acqua, che da molti giorni mancava, come se fosse ansiosa di nutrire i prati, gli alberi, le siepi e le miriadi di fiori che coprivano i declivi e le balze che arrivavano fino al ruscello.

L’aria umida del pomeriggio fresco spinse Caterina a chiedere di preparare la legna per accendere il camino, Valerio mentre scaricava dall’auto le borse, approvò subito l’idea e insieme andare a prendere i rami e la legna.

Mentre Caterina organizzava con cura la posizione dei rami secchi e la piramide di legna nel camino, Valerio aprì le imposte delle finestre e l’aria fresca dei prati riempì la sala. Guardò Caterina intenta a costruire la piramide e le disse: “Il temporale è passato, il cielo resterà coperto, l’acqua è torbida, il camino lo accenderemo e allora?”. Caterina lasciò la legna che ruzzolò in disordine, guardò Valerio e con un salto di gioia tirando un pugno nell’aria disse: “Andiamo a pesca di anguille e stasera le facciamo arrostite sulla brace, alla faccia dei panini al prosciutto e delle mozzarelle che abbiamo portato. Ok! Ci sto!”.

“In campagna la primavera c’è. C’è sempre, come le altre stagioni. Talvolta si anticipano o ritardano, sono più secche o più umide, ma sono sempre ben evidenti.

Può sembrare banale, ma nelle città è diverso, riconoscere la primavera, l’autunno non è mai facile.

Qualcuno dice, al colmo della sensibilità, magari con espressione sognante che sente la primavera nell’aria, ma quale aria?

Si sente forse la primavera aspettando l’autobus tra gli scarichi delle auto? Si percepisce l’autunno o l’inverno o l’estate “nell’aria” dei condizionatori. E quale aria dovrebbe allora percepire la gente di campagna quando va in città per qualche motivo?”.

Questi furono i discorsi che Valerio e Caterina fecero mentre preparavano le “mazzocche” infilando con un ago e un robusto filo per tutta la lunghezza, i lombrichi che avevano preso scavando appena tra le aiuole di verbena e di rose, che in quest’ultimo scorcio di maggio erano cariche di fiori.

Ora sedevano sotto il portico con un vecchio barattolo in cui si aggrovigliavano qualche decina di grossi lombrichi.

Valerio l’aveva già pensato altre volte, Caterina era sul punto di abbandonare quella sua aria da maschiaccio e cominciare ad essere una bellissima ragazza, visto lo sviluppo armonico del suo corpo e la serenità della sua anima.

Con quelle mani sporche, mentre infilava i lombrichi, senza mostrare nessun segno di disgusto, e la perizia con la quale procedeva, non sapeva immaginare quale segno avrebbe potuto lasciare nella sua personalità di tredicenne.

Le “mazzocche” furono ultimate, arrotolate a grappolo e legate ad un robusto filo che già pendeva da corte canne di bambù, usate per la stessa pesca l’anno prima.

Attraversarono i campi rossi di papaveri quando il sole già era tramontato e scesero lungo la riva del ruscello passando tra ginestre già fiorite che nella poca luce che rapidamente passava al buio, sembravano cespugli con migliaia di piccole luci gialle. Accesero la lampada nell’ultima parte del sentiero che li portò nel piccolo spiazzo erboso che si affacciava sul ruscello a circa cinquanta centimetri dall’acqua.

Tornarono a casa tardi, il cielo non si era aperto, segno che le nubi non avevano più abbandonato quel luogo e avevano reso la notte fredda e umida.

Valerio accese il fuoco nel camino e Caterina con l’aiuto di uno straccio riuscì a pulire e tagliare a pezzi le otto anguille pescate, che non smisero mai di contorcersi fino a quando non cominciarono ad arrostire sulla brace.

Per tutto il tempo aveva ripetuto a Valerio la lotta che aveva sostenuto con cinque delle otto anguille e che quelle ricadute in acqua le avrebbero prese la prossima volta.

Alla luce del camino e al meritato tepore mangiarono.

Lo sguardo di Valerio si fermò sulla luce dorata che le fiamme riflettevano su delicati lineamenti del volto della figlia.

La ragazza distesa sul divano, coperta dal plaid rosso, regalava a quell’atmosfera una profonda tenerezza e Valerio, mentre Caterina con gli occhi chiusi si assopiva, pensò di essere felice.

Prese alcuni spartiti che aveva lasciato sulla sedia e cominciò a sfogliarli.

“Papà”, sussurrò Caterina, “venerdì è il mio compleanno!”. Valerio attese e Caterina rimanendo con gli occhi chiusi e con un filo di voce continuò: “vorrei un regalo”, “va bene” rispose Valerio, “quale?”

Caterina aprì un solo occhio e con la voce chiara di chi sa di stare ben sveglia disse: “un cane” richiuse l’occhio e attese la reazione. Se Caterina si aspettava una reazione negativa o un lungo patteggiamento, fu delusa, Valerio ingoiando la sorpresa e dominando lo sgomento rispose calmo dopo un lungo silenzio disse: “dormi, adesso, ne parliamo domani”. Caterina pensò che era fatta.

La mattinata della domenica il cielo rimase coperto e una finissima pioggia e un tuonare lontano accompagnarono il cinguettio degli uccelli, che dal folto delle chiome delle querce rivelavano la loro presenza.

Ma tanto cantarono che a metà giornata il sole uscì in un cielo azzurrissimo mentre il sipario di nuvole si apriva sempre più.

Due arcobaleni che si incrociavano nella vallata, dove scorreva il ruscello, sorpresero Caterina e Valerio mentre caricavano i bagagli in macchina.

Avevano dormito fino a tardi, Caterina sul comodo divano e Valerio sulla poltrona, mentre il camino si spegneva.

Un arcobaleno è un fenomeno sempre sorprendente ma due sono uno spettacolo straordinario, che tenne muti padre e figlia come incantati mentre le lumache affollavano la siepe di passiflora coperta di fiori argentei.

Nel viaggio di ritorno a casa, Caterina prese dal suo zainetto rosso un foglio di giornale e lo mostrò al padre dicendo: “questo è il mio cane”.

Era un setter irlandese fotografato in una posa assai plastica, ma tipica del cane da caccia, quella mentre punta una preda.

Il cane veramente assai bello, mostrava di sé l’elegante profilo e il manto lucente color del mogano. Valerio guardò quell’affascinante creatura e rispose: “dovrai convincere mamma, tu sai che un cane così oltre ad essere bello e affettuosissimo dà anche molti problemi?” “si, lo so. Ma saranno solo miei.”. Il padre dopo un lungo silenzio disse: “non ti prometto niente, poi sentirò anche mamma e decideremo insieme” “grazie pà”. Ripose la foto e prese dal suo zaino un piccolo registratore, appese il microfono al collo della maglietta blu e cominciò a recitare leggendo i versi scritti su alcuni fogli: “Rapido ippogrifo, che hai galoppato in gara con il vento, lampo senza luce………” la ragazza ricominciava daccapo ogni volta che riteneva sbagliata l’intonazione o una pausa e poi riascoltava, da piccoli auricolari che scomparivano sotto i suoi capelli color miele, quei versi per memorizzarli. Era un trucco che Valerio le aveva suggerito per aiutare la memoria e per dare il meglio nella recitazione. In una delle pause Valerio le disse: “ma la vita è sogno”, quest’opera di Calderon de la Barca, non è troppo complessa per la recita di fine anno? Il testo mi pare un po’ difficile per dei ragazzi di III media, mi sbaglio?” “no, non ti sbagli, ma la prof. L’ha completamente trasformato, è un lavoro di aggiusto che abbiamo fatto insieme e a me piace. Mi piace anche il mio ruolo di Rosaura. Sai, entro in scena vestita da maschio, e forte no? Visto come vanno oggi le cose?”. “Rapido ippogrifo…”.

L’auto si fermò davanti al portone, Caterina raccolse lo zainetto rosso e scese insieme al padre.

Silvia, la moglie, rispose al citofono e invitò Valerio a salire, ma lui disse che era già tardi e doveva arrivare a Roma al più presto, dove l’aspettava il suo assistente.

Le disse che avrebbe telefonato l’indomani e la salutò affettuosamente.

Caterina spinse il portone e si alzò sulle punte dei piedi per baciare Valerio e gli disse: “Non ti scordare del regalo” poi lo abbracciò forte, indugiò ancora mentre entrava e disse: “Ti voglio bene, pà!”. Valerio, lanciandole un bacio con la mano rispose: “Anch’io”.

Caterina scomparve nell’androne e Valerio entrò in macchina, un attimo dopo Caterina spuntava con il suo viso a mandorla dal finestrino del passeggero: “il mio cane si chiama Sabù!”. “Aspetta” disse Valerio “Stai attenta col motorino, prudenza, e ancora prudenza.”.

Un saluto con la mano e la piccola scomparve nel portone liberty di via Drengot.

La pioggia ricominciò sull’autostrada, e fino a Roma Valerio ebbe tempo per ricostruire nella sua memoria quanto il nome Sabù evocava. Ricordò Janez, Marianna e finalmente nella grande saga della letteratura salgariana anche Sabù prese il suo posto tra i fedeli amici di Sandokan.

La settimana successiva fu tra le più concitate e cariche d’ansia. Il problema non fu Silvia, la quale in qualche modo già conosceva il desiderio di Caterina e approvò l’idea solo se fosse stata rassicurata sulle cure future al cane, anche se lei avrebbe fatto la sua parte, ma a portarlo giù ai giardinetti avrebbe dovuto provvedere Caterina.

Fu una promessa che Valerio già aveva avuto, quindi nessun ostacolo da Silvia. Il grande problema si pose quando cercò di comprare il setter nei negozi. Tutti ne erano sprovvisti solo il mercoledì riuscì a contattare un allevatore fiorentino, che non aveva cuccioli, ma poteva mandargli un setter di tredici mesi, maschio.

Un po’ grandicello forse, ma già iniziato all’addestramento, un po’ caro forse, ma valeva molto di più, un po’ grosso di taglia, ma……: “va bene, va bene” concluse Valerio dopo un’ennesima e lunga telefonata fatta dal negoziante romano, che lo aveva aiutato nelle ricerche. “Mandatelo pure per corriere a questo indirizzo, è un negozio di animali della mia città, è un regalo per mia figlia e vorrei che fosse una sorpresa, ma è indispensabile che stia lì entro venerdì, sabato, è il suo compleanno, è molto importante per lei ricevere questo regalo”.

Il venerdì il cane arrivò con un furgone al negozio indirizzato da Valerio, era un negozio posto in Piazza IV novembre, un bel negozio specializzato in acquariologia, ma vendeva anche altri animali da più di trent’anni. Una grande vetrina si apriva sul marciapiede tra un “sale e tabacchi “e una boutique alla moda. Valerio aveva già avvisato il proprietario, che era il padre di un suo compagno di conservatorio, il quale fu felice di ricevere il cane e di consegnarglielo il sabato.

Silvia ricevette la telefonata di Valerio il venerdì sera, nella quale comunicava l’arrivo del cane al negozio del signor Borrelli in piazza IV novembre, quel bel negozio accanto al tabaccaio, e l’appuntamento con lei e Caterina era dopo le 12:00, all’uscita di scuola, davanti al negozio di Borrelli. Silvia lo salutò affettuosamente e disse che avrebbe mantenuto il segreto con Caterina, che all’appuntamento avrebbe trovato la sorpresa.

Valerio quel sabato arrivò al negozio alle 12:00, pensò che avrebbe dato il cane a Caterina e chiesto a Silvia di passare la giornata insieme, magari in campagna. Per festeggiare la figlia avrebbero preparato un barbecue, e preso una torta gelato lungo la strada. Silvia avrebbe sicuramente accettato visto che il suo compagno era impegnato in varie riunioni scolastiche di fine anno.

Il setter era lì, il signor Borrelli lo teneva dietro al lungo banco e lo carezzava parlandogli affettuosamente, come se parlasse ad un bambino. Era bellissimo, un manto mogano lucente, il pelo lungo pettinato, su cui saettavano i riflessi del sole che entravano dalla vetrina sulla piazza. La testa perfetta si girò quando Valerio entrò salutando il signor Borrelli gli andò incontro tenendo il cane al guinzaglio: “è un esemplare magnifico, Caterina sarà felice veramente, come stai Valerio? È da un po’ che non ci vediamo” “signor Borrelli sono felice di vederla, so che Sandro, suo figlio, sta bene, ci incontriamo spesso a Roma negli studi della televisione”. “Sì, lo so me ne parla”. “Questo è il setter arrivato ieri, è proprio il massimo, è forte come un toro, è un maschio gigante, guarda che petto e che testa”. Valerio carezzò quel cane e sentì sotto le sue dita potenti muscoli che guizzavano e spingevano per mostrare il suo affetto. “Hai fatto bene a prenderlo di tredici mesi, è maturo, e sarà tutto più semplice per tenerlo, seguimi ti do la documentazione, a proposito lo sapevi che è figlio di campioni? Mi dicevano che è un esemplare che esce dai canoni previsti dai regolamenti, e che è inutile farlo gareggiare, è buono per allevamento, si pagano le prestazioni di questo esemplare, sai?”.

Borrelli consegnò i documenti e Valerio firmò la ricevuta e l’assegno che saldava la cifra pattuita con l’allevatore.

“Qui, su questi certificati, c’è scritto che si chiama Perry”. “No, no. Da oggi si chiama Sabù. È questo il nome scelto da Caterina.”. “Sabù! Sabù!”.

Valerio chiamò il cane, più volte, il quale al culmine dell’entusiasmo tra uno scodinzolare forsennato, si alzò e con un balzo si appoggiò con le zampe anteriori al suo petto, mentre l’alito lo investiva in piena faccia e un mugolio di felicità usciva dalla sua gola. “Piace anche a lui questo nome. È proprio bello e che stazza per un cane da caccia, ma questo a caccia non è mai andato, è un cane selezionato per la sua bellezza ormai.” disse il signor Borrelli.

“Ah! Ecco, è arrivata Caterina”.

Valerio vide la figlia attraverso la vetrina che seduta sul motorino aspettava guardandosi intorno. Salutò ed uscì con il cane, pochi attimi, e tutto si tradusse in tragedia. Valerio vide Caterina strattonata da un giovane, la piccola gridò, il giovane strappa con violenza il motorino alla figlia. Realizza la gravità della scena lascia il cane e corre in aiuto di Caterina con il sangue che gli romba nella testa, velocemente attraversa il lato della piazza. L’ultima scena che vede è sua figlia che cade riversa, mentre il motorino velocemente si allontana guidato dall’aggressore, lui è travolto da un’auto che non fa in tempo ad evitarlo.

Silvia a quell’appuntamento era arrivata in ritardo, l’ambulanza già aveva portato via i feriti.

Fu il signor Borrelli a darle comunicazione dell’accaduto. Valerio uscì dall’incoscienza tre giorni dopo, aveva una gamba fratturata e un trauma cranico.

Aprì gli occhi e non provò alcuna sensazione, le apparecchiature della sala di rianimazione gli parvero cose senza significato, solo il viso di Silvia e il contatto della sua mano gli riportarono lentamente la sensazione del mondo reale, e con esse la ridda di domande che si affacciarono alla sua mente ovattata dai farmaci.

Un medico entrò nella stanza e regolando i vari strumenti collegati al suo corpo cominciò a visitarlo: “lei è stato tre giorni senza coscienza, ha un trauma cranico, che abbiamo già ricomposto chirurgicamente, non faccia sforzi, vedrà che domani starà molto meglio, e toglieremo questa trazione alla gamba, in sala operatoria metteremo tutto a posto in poco tempo, resti il più possibile fermo, le lasceremo solo la flebo, l’infermiera toglierà il sondino, vuole fare pipì?”.

Valerio mosse le ciglia e girò lo sguardo, Silvia ai piedi del letto asciugava lacrime che non si fermavano, anche se con la punta delle dita gli mandò un bacio.

Il medico andò via, prima di uscire fece un segno d’assenso a Silvia, che sedette al fianco al letto e con un filo di voce disse: “Caterina non c’è più”.

Lentamente raccontò tutto come inebetita, stringendo la mano di Valerio. Fu un racconto breve, in cui le parole dettagliavano suoni e non significati.

Avevano rapinato il tabaccaio accanto al negozio del sig. Borrelli, all’ora di chiusura, era sicuro di farcela, ma il giornalaio aveva tentato di aggredirlo, ed era stato ferito con un coltello. Il rapinatore scappando aveva trovato davanti al negozio Caterina seduta sul motorino, che resistette all’aggressore. Non cedendogli il mezzo di fuga, il giovane colpì a morte Caterina con il coltello, dileguandosi a tutta velocità.

Aggiunse, poi, che lei stessa era arrivata all’appuntamento in ritardo, e l’ambulanza aveva portato i feriti all’ospedale. Caterina era finita subito dopo, mentre i chirurghi cercavano di salvarla. Valerio investito dall’auto aveva tibia rotta in due punti e un ematoma che già era in via di risoluzione. Avrebbero operato la sua gamba il giorno dopo. Solo una stupida, tragica fatalità che aveva giocato con gente inerme predisponendo le cose in maniera che nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato tre vite a caso venissero per sempre lacerate. Nessuna traccia dell’assassino. Il motorio, poi, era stato trovato dai carabinieri bruciato in una discarica.