– di Giovanna Di Puorto –
1˚classificato Premio Anna Castelli 2016/17 – sezione RACCONTO A TEMA: I.C2 “Rita Levi Montalcini”- San Tammaro –CE
Mi svegliai: occupavo una piccola parte in quel grande treno in cui dei soldati tedeschi avevano brutalmente costretto noi ebrei ad entrare. Addormentala su di me c’era la mia sorellina, Chana, che stringevo forte a me. Lei era tutto ciò che mi era rimasto della mia famiglia: i miei genitori erano stati portati in un campo di lavoro, sul quale mi ero ben informata e, chissà, forse li stavamo raggiungendo. Stavo pregando tra me e me sperando di sbagliarmi sulle atrocità compiute in quei campi, speravo fossero solo dicerie, ma dentro di me sapevo che non erano solo pettegolezzi quelli sentiti in paese. Ad interrompere i miei pensieri fu una brusca frenata da parte del treno. Violentemente dei soldati ci fecero scendere da quel rottame. Notai dinnanzi i miei occhi un grande cancello con su scritto:” ARBEIT MACHT FREl”, “il lavoro rende liberi” tradussi mentalmente, con quella poca conoscenza del tedesco che avevo.
Entrammo e, stranamente, forse per distrazione, quando vennero separati uomini, donne e bambini, nessuno si accorse della mia sorellina, abbastanza alta per la sua età. Ci fecero mettere in fila verso un grande capannone: avevo paura … pensavo alle “famose” camere a gas di cui avevo sentito parlare. Dei soldati ci intimavano di spogliarci e di andare sollo le docce. Quando un getto d’acqua calda sul corpo mi travolse mi sentii rilassata. Non ci stavano uccidendo, non ancora. Venimmo “visitati” se così si può definire, diciamo che non furono mollo garbali e delicati. In quella grande sala venimmo anche marchiati, insomma ora eravamo spogli dalla nostra identità. Non avevamo più un nome, i nostri vestiti o oggetti personali, le nostre famiglie … la nostra dignità. Il primo trauma da affrontare è proprio l’umiliazione: non eravamo neanche considerati degli animali, ma delle cose; dei giocattoli con cui sfogarsi, da nutrire neanche quanto basta, giocattoli che lavorano. Giocattoli che hanno un’anima, un cervello, dei sentimenti … ma a cui era proibito vivere.
Subito, iniziammo a lavorare sotto i freddi e severi occhi dei soldati, in particolare uno di questi mi fissava spesso … ma non ci feci mollo caso, non dovevo distrarmi e dunque fermarmi, ne valeva la vira e di ceno non volevo che mi uccidessero, volevo lottare per salvare Chana. C’erano molte regole da rispettare per non essere puniti e le punizioni erano molto dure.
Quella di noi prigionieri, ormai, era diventata una dolorosa e noiosa routine: ci svegliavano all’alba, facevano l’appello e subito a lavorare. Inoltre mangiavamo davvero poco: la mattina ci veniva dato un surrogato di caffè, a pranzo una gavetta di brodo, mentre la sera del pane duro e nero. Da bere? Dell’acqua piovana.
Tra un appello e l’altro, Ira una punizione e l’altra il tempo passava.
Una sera, mentre ero sdraiato su quei pezzi di legno attribuitici come letto, stavo per chiudere gli occhi, quando sentii una dura voce da soldato. Dissero in tedesco, seguiti da un interprete prigioniero il quale conosceva la lingua, che il figlio del maresciallo voleva vedere il numero JKl382, cioè me. Nella mia mente affioravano mille timori, preoccupazioni e domande: insomma, che cosa volevo da me? Non bastavano tulle le punizioni che avevo ricevuto in questi mesi? Cosa allora mi aspettavo?
Ad interrompere i miei pensieri furono le guardie quali mi condussero in modo poco educato in una casa. Non ne vedevo una così da tanto e mi guardavo intorno, affascinata dall’arredamento che mi ricordavo tanto casa mia…
Ad un tratto, una voce mi richiamò, ma questa volta dopo tanto tempo sentii pronunciare il mio nome. In quel momento mi parve molto strano, ormai ero abituata ad essere una cosa e pertanto senza nome. Alzai lo sguardo e vidi un soldato, quello che da tempo mi fissava, quello con gli occhi cosi azzurri da sembrare ghiaccio e con i capelli neri come una notte senza stelle. Ma solo dopo una bella manciata di secondi mi accorsi che il così tanto temuto figlio del maresciallo non era altro che Adam: il mio migliore amico d’infanzia. Non lo vedevo dalla tenera età di dieci anni, quando ci separarono perché dovevo frequentare una “scuola formativa”. Quando compresi chi avevo davanti, mi si gelò il sangue nelle vene e rimasi immobile, che cosa avrei dovuto pensare? Mi voleva ancora bene o solo perché ero ebrea mi avrebbe preso a calci? Forse fece l’ultima cosa che mi sarei aspettata in quel momento e, sopratutto, da un soldato tedesco: mi abbracciò. A quel tocco i miei muscoli lesi si rilassarono e mi sentii finalmente a casa in quell’abbraccio cosi improvviso e bello come quelli che ci davamo da piccolini. In fondo lo sapevo che dietro quella fascia nazista si
nascondeva un cuore, sebbene fosse mascherato da tonti ideali assurdi e privi di fondamento. Mi erano davvero mancati i suoi abbracci. ma dopo un ultimo sguardo mi rispedì nel campo, senza proferire parola.
La vita era dura in quel maledetto campo. ma capii che Adam era riuscito o salvarmi la vita molte volte. Però di lui, nel campo, vedevo solo i suoi durissimi occhi mentre sparava innocenti. Lo odiavo, lo odiavo tantissimo, per come era diventato e per come mi ballava davanti ai suoi colleghi. Nonostante ciò, molto spesso venivo condotta da lui in quella bellissima casa e trascorrere del tempo in sua compagnia come quando eravamo bambini mi faceva stare bene, ma ovviamente davanti agli occhi di tutti ero la sua serva.
Lui non voleva vedermi soffrire e notavo che ultimamente era molto meno severo verso i prigionieri. Stava cambiando, lo stavo cambiando. Mi aiutava, devo ammetterlo, mascherava la mia stanchezza, mi assegnava compiti molto più leggeri rispetto ad altri e mi offriva cibo gradevole; ovviamente tutto lontano da occhi indiscreti. Stava rischiando davvero tanto, se lo avessero scoperto lo avrebbero condannato per tradimento.
In una di quelle sere che trascorrevo con lui presentata come serva, mi annunciò un fatto non molto piacevole. Suo padre aveva deciso di sterminare tutti i prigionieri del campo. per paura dell’arrivo degli alleati. Dopo aver sentito ciò rimasi davvero scandalizzata, non riuscivo a parlare e le lacrime minacciavano di uscire dagli occhi. Notata la mia reazione, Adam fece una cosa inimmaginabile: mi baciò dolcemente. Un soldato nazista che bacia un’ebrea, era quella la scena. Mi lasciò di stucco, soprattutto perché da quando lui partì tanti anni fa, avevo capito di provare per lui più di una semplice amicizia.
Dopodiché mi rassicurò esponendomi il piano per scappare e portare con noi Chana.
Da quella sera vidi raramente Adam per non destare sospetti; stavo male, non c’era lui che mi scampava dai guai, non c’erano i suoi occhi a darmi forza, i suoi abbracci rubati. I giorni diventavano sempre più faticosi e molti nel campo si ammalarono, ma io non volevo mollare, non adesso.
Arrivò la notte in cui lutti sarebbero morti, la notte di fuga: mi sentivo in colpa perché avevo avuto la fortuna di poter scappare, mentre gli altri prigionieri sarebbero morti. Infondo, ero stata molto fortunata ad avere Adam.
Mi alzai. Vedevo dei soldati che portavano gruppi di sessanta o settanta persone verso dei capannoni simili a quelli che vidi appena arrivata: donne, che si univano a gruppi con uomini, con i volti affaticati, scavati dalle lacrime, occhi vuoti.
Adam mi aveva detto che sarei dovuta andare vicino l’uscita del retro, dove lui era di guardia. La guerra era quasi finita e io e Adam avevamo programmato di farci una vita con dei nuovi documenti: era tutto programmato, era tutto pronto. Cosicché, cautamente mi avvicinai al letto di Chana per portarla via, ma, stranamente non mi rispondeva. Pensavo stesse dormendo, ma, quando toccai il suo gelido corpo, non mi ci volle molto per capire che era morta: probabilmente di febbre, il suo esile corpicino non ha resistito. Avevo sottovalutato la situazione, stavamo per scappare e mai mi sarei immaginata cedesse proprio ora. Rimasi li impalata e scoppiai in lacrime, senza ritegno, avevo trattenuto le lacrime già troppe volte; ero stata abbastanza forte in questi mesi ma ora basta.
Non riuscivo a muovermi da lì: le urla dei prigionieri si facevano sempre più forti, la testa mi girava, la vista si appannava e il cuore batteva sempre più forte quando mi venne levato il minuto corpicino della mia sorellina dalle mani. Dopo un tempo indeterminato senti delle mani prendermi i fianchi e stremata dal dolore, dalla fame, dalla fatica, mi addormentai tra quelle inconfondibili braccia. Quando mi svegliai, la prima cosa che notai era una macchina in cui ero seduta e dal finestrino scorgevo fumo. Tanto fumo. Girai il volto e alla guida c’era Adam. Mi guardò, regalandomi un flebile sorriso, e dopo qualche minuto di silenzio mi parlò: “Ti ho fatto davvero del male e mi ero promesso di non farti soffrire. Mi sono reso conto della gravità delle mie azioni e grazie a te sono cambiato e mi pento di ciò che ho fatto. Sai anche tu quanto volessi bene a Chana, era la sorellina che non ho mai avuto, mi ha distrutto vederla lì e non poterla neanche portare con me e degnarla di una sepoltura. Scusami, scusami se non sono stato abbastanza forte da salvarvi prima, scusami. Però sappi che io ora voglio rimediare, prima di rifarci una vita, voglio fare ciò che mi hai chiesto qualche sera fa, voglio che si avveri il desiderio di Chana per il suo nono compleanno” mi sorrise Adam appena finito il suo discorso.
Girai il volto e ripensai a quella sera:
“Chana, che cosa vuoi per il tuo compleanno’? Oggi compi nove anni e … sai quando usciremo da qui voglio farti un regalo … ” le chiesi accennando un sorriso. mentre la abbracciavo per darle calore.
“Qualche mese fa, avrei chiesto una bambola, penso. Ma no, non ho bisogno di una bambola. Non ho bisogno di vestiti, anelli, braccialetti … forse neanche di cibo. Ho bisogno solo di libertà. Ho bisogno di correre in una calda giornata di primavera su un prato verde. Ma non mi basta, voglio una cosa che prima era scontala e … ora non lo è … almeno non per tutti …” mi disse con un filo di voce rannicchiandosi a me.
“Cosa?” ribattei io dolcemente.
”Voglio che tutti siano felici, voglio che tutto torni come qualche anno fa … io … io voglio semplicemente la pace” disse con quel filo di voce che le era rimasto e si addormentò subito.
“Sarà fatto, è una promessa Chana. Te lo prometto” le sussurrai sottovoce all’orecchio.
Ebbene sì. Adam mantenne la parola e realizzò quel desiderio. Salvammo più prigionieri possibili opponendoci dunque al nazismo fino alla fine della guerra, quella guerra che ci aveva segnato, distrutto gradualmente, di cui ora avremmo cucito le ferite. E cosi accadde, per amor mio e di Chana, si oppose al regime per cui aveva sempre combattuto. Ora eravamo insieme e avremmo lottato. Nonostante tutto, nonostante tutti.
NOTA DELLA REDAZIONE: “IL FANTASMA DEL CIMITERO” di Dalila Martucci, (IC2 “Rita Levi Montalcini” di San Tammaro), guadagnò il 2° posto in classifica, ma purtroppo non è stato possibile trovare il file. Qualora l’autrice volesse contattare la redazione (redazione@appiapolis.it) o gli organizzatori del premio, ci riserviamo di pubblicare il lavoro successivamente.