COME LA PANDEMIA STA RISCRIVENDO IL MODELLO DI GLOBALIZZAZIONE

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      –       di Adolfo Villani      –             

adolfo villani 1 COME LA PANDEMIA STA RISCRIVENDO IL MODELLO DI GLOBALIZZAZIONESiamo già oltre il milione e centomila contagiati e i sessantamila morti. Numeri impressionanti se si considera che in buona parte del Mondo le persone sono rintanate in casa e la gran parte delle attività produttive sono sospese, come non era accaduto neppure in tempo di guerra. E siamo solo all’inizio di un tunnel che non lascia ancora intravedere la luce. L’inadeguatezza del sistema che ci governa è resa manifesta innanzitutto dal marasma che attanaglia gli Stati Uniti. Non faremo la fine dell’Italia, aveva detto Trump qualche mese fa, perché “siamo la prima potenza economica e militare mondiale”. E invece oggi gli USA sono il Paese che registra il più alto numero di contagi e una debacle impressionante del sistema sanitario. I medici di New York, la città più colpita, hanno denunciato la situazione: letti di ospedale insufficienti, mancanza di materiale protettivo per i medici, ossigeno – indispensabile per i malati di covid 19 – che scarseggia, i respiratori che non bastano. Poi c’è il problema enorme di un sistema sanitario fondamentalmente privatistico che nega le cure a milioni di americani. Ha impressionato il caso del ragazzo, privo di assicurazione, morto perché respinto dall’ospedale. Non meno gravi di quelle sanitarie sono le ferite inferte all’economia. Basta un dato: nel cuore dello sviluppo capitalistico le richieste di sussidi di disoccupazione sono schizzate da una settimana all’altra da 320 mila a 6,6 milioni. Le previsioni su disoccupati e PIL per i prossimi mesi è meglio non guardarle tanto fanno impressione. Ecco perché, se la grande recessione del 2008 – 2009 ha sancito l’inizio della fine della globalizzazione neoliberista – di cui nel decennio successivo nessuno ha voluto affrontarne le cause – è ora la pandemia da coronavirus che in pochi mesi ha cominciato a far scrivere il nuovo modello di globalizzazione che ci governerà nei prossimi decenni. Siamo ai primi passi e i nodi da sciogliere, le contraddizioni da rimuovere, sono ancora numerosi. Ma la strada è tracciata e nulla potrà tornare come prima. Il modello di globalizzazione neoliberista – che sostituì il mondo governato da due blocchi politici e militari contrapposti scaturito dall’esito della seconda guerra mondiale – ha ormai mostrato tutti i suoi limiti. Aver puntato tutto sulla liberalizzazione dei flussi di capitale e di merci ha creato poteri sovranazionali economici e finanziari, ispirati dalla sola logica del profitto, che hanno messo all’angolo la mano pubblica, le esigenze di tutela del lavoro, dei diritti sociali e dell’ambiente. La conseguenza non è solo la concentrazione della ricchezza a livelli socialmente insostenibili. È anche la messa in discussione del destino umano. Perché, come diceva Martin Luther King “il capitalismo corre sempre il rischio di ispirare gli uomini ad essere più interessati a guadagnarsi da vivere che a vivere”. E oggi questa immane tragedia che stiamo vivendo, ma anche quelle ancora più sfidanti dei cambiamenti climatici e delle grandi migrazioni che sono ancora tutte davanti a noi, ci dicono che affidarsi ancora alla “capacità del mercato di autoregolarsi” e agli “spiriti animali”, conduce non solo a disastri sul piano economico ma anche a perdere tutte le sfide terribili che questo tempo nuovo ci impone. È la realtà che in questi giorni ci sta facendo riscoprire il senso di comunità e il ruolo insostituibile della mano pubblica per ritornare a mettere al centro di questo processo di globalizzazione – per tante ragioni irreversibile – l’interesse generale, la protezione della salute, lo sviluppo dello stato sociale, la centralità della ricerca e della conoscenza, la tutela dell’ecosistema. Stiamo già osservando il passaggio dal dominio del mercato al ruolo forte dei grandi Stati continentali. Gli unici ad avere le spalle larghe per imporre le regole ai grandi poteri economici e finanziari e per mettere in campo politiche fiscali robuste, in grado non solo di fronteggiare l’emergenza ma anche di imporre un indirizzo allo sviluppo economico. Le contraddizioni sono enormi ma è in questa direzione che sta andando il Mondo. Da un lato la Cina, con il suo sistema autoritario di gestione dell’economia e della società, che pecca di opacità e di mancanza di libertà ma riesce per primo ad uscire dall’emergenza e a dare vita ad una ripresa economica che lo pone come riferimento delle economie emergenti. Dall’altro gli Stati Uniti che scontano i troppi passi indietro della presidenza di Trump. Passi indietro rispetto alle riforme della sanità e della finanza avviate da Obama, agli impegni di Parigi per la riconversione ecologica e sul piano del ritorno ad un protezionismo senza futuro. E tuttavia con un assetto federale, con istituzioni fiscali e finanziarie, che consentono ora di dispiegare una risposta potente sia sul piano dell’emergenza sanitaria ed economica che su quello della ricostruzione del potenziale produttivo, da affrontare quando la pandemia finirà. Un piano deciso di intesa tra democratici e repubblicani – che hanno dovuto mettere da parte la loro ostilità alla spesa pubblica in deficit – mentre già si cominciava a discute di un secondo piano di pari potenza per lo sviluppo delle infrastrutture e dell’economia. E poi c è l’Europa che può diventare il terzo grande attore della nuova globalizzazione, se decide di uscire finalmente dal guado e di riprendere il cammino della sua integrazione politica. Certo lo scontro che si è aperto in questi giorni sugli Eurobond, come strumento per finanziare un piano di ricostruzione della propria economia, ci dice quanto ancora grandi siamo i rischi di un fallimento della costruzione europea. E tuttavia sarebbe sbagliato non vedere che anche qui la pandemia ha prodotto novità importanti: la pronta risposta della BCE, la sospensione del patto di stabilità, che consente ai governi di muoversi senza il vincolo dei deficit di bilancio, il piano da 100 miliardi per il sostegno al lavoro, i 200 miliardi per il sostegno alle imprese, messi in campo dalla Banca Europea, la discussione aperta sull’uso delle risorse del MES, senza le condizionalità che fin qui hanno impedito a questo strumento di svolgere un ruolo di reale supporto ai paesi in difficoltà. Non era scontato e non è poco, anche se è evidente che la situazione straordinaria rende tutto questo non sufficiente. Tuttavia si apre uno spazio enorme per fare quel salto sul terreno dell’unione politica che può portare a superare anche le resistenze, da parte Paesi con meno debito pubblico -nei confronti degli Eurobond – se solo il gruppo di Stati membri che si sono ritrovati uniti nel proporli, trovasse il coraggio di offrire quella cessione di sovranità, sul terreno della fiscalità e del bilancio comune, di cui un po’ tutti sono stati fin qui troppo gelosi. Sarebbe indubbiamente più facile convincere di dover condividere il debito se si è tutti davvero disposti a mettere in comune anche la cassa. In ogni caso non c’è altra via per essere protagonisti di questa nuova fase. La sovranità nazionale non ha spazio fuori dagli Stati Continentali. La situazione è tale che l’Europa non può più rimanere ferma. Deve necessariamente muoversi. Ma può andare solo avanti se non vuole diventare terreno di conquista nella grande competizione che è già aperta per scrivere il nuovo ordine internazionale.