LA TRISTEZZA DEL MONDO CHE CAMBIA (seconda e ultima parte)

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           –      di Massimo Moscarella      –             DD84DA5E 097A 4838 887F 1E1C1551A967 scaled LA TRISTEZZA DEL MONDO CHE CAMBIA (seconda e ultima parte)

LEGGI LA PRIMA PARTE

Dopo le operazioni di registrazione nel poco ambito albo degli ospiti delle patrie galere, fu sbattuta in cella d’isolamento.  Questo voleva dire niente telefono, niente TV, niente visite dei parenti fino a nuovo ordine.

Lei rifiutò il po’ di cibo che le portarono. Piangeva continuamente. Le pareva di non saper fare altro. Pensava ai figli, al marito, a Dio che permetteva tutto questo.

Dopo un po’ si aggrappò alle sbarre della porta e cominciò a gridare la propria innocenza.

Si alzò subito un coro di voci che la mandava a quel paese senza troppi complimenti.

Erano le altre recluse, che alle tre di notte pensavano di avere il diritto di dormire.

Una guardia carceraria che somigliava alla Merkel, con lo sfollagente diede un colpo secco alle sbarre della cella e le intimò di tacere.

La mattina dopo finalmente arrivò un tizio accompagnato da una guardia diversa dalla sosia di Angela Merkel. Questa era un pochino più carina. Aprì la porta, introdusse l’ospite, uscì e richiuse a chiave.

– Venti minuti, avvocato. Mi raccomando. Solo venti minuti.

L’avvocato era giovane e di aspetto gioviale. Diede la mano a Elsa e si presentò:

– Mi chiamo Perdente, signora. Giovanni Perdente. Ci ha pensato suo marito a contattarmi.

“Siamo a cavallo!” pensò lei con aria mesta “Un avvocato che si chiama Perdente era giusto quello che mi mancava.”

Giovanni Perdente durante il colloquio fece del suo meglio, ma non la rassicurò più di tanto.

Passarono altri otto giorni. Furono duri, ma passarono.

Finalmente la andò a trovare suo marito.

Alla buon’ora. Ti sei deciso a venire! – Lo accolse lei con tono di rimprovero.

Ma cara, che cosa dici? Prima non mi hanno dato il permesso. In ogni modo devi stare tranquilla: l’avvocato Perdente ha detto che si sta chiarendo tutta la faccenda. Forse hanno trovato la vera assassina dell’onorevole Ugo Cavalletta. Si tratta di una puttana che lui ha frequentato per sei mesi. Pare che dopo averla messa incinta, l’abbia scaricata senza indugi. Il terrorismo non c’entra per niente con questa storia. Appena avranno la certezza assoluta della colpevolezza di quella donna, tu sarai rilasciata.

Elsa provò un grande sollievo. Dunque ogni cosa stava tornando al suo posto. Poche ore ancora e sarebbe stata di nuovo libera. Tentò di godersi quel momento di ottimismo, quando il marito trovò il modo di rovinare tutto.

Però anche tu, Elsa, che mi vai a combinare! Proprio nel giorno in cui accoppano un politico con un nome così stronzo, mi ammazzi una cavalletta!

A quel punto lo avrebbe volentieri mandato a quel paese, ma non trovò nemmeno la forza per rispondere.

Tre giorni dopo, alle ore dodici e un quarto la rilasciarono senza chiederle scusa.

Uscendo dal carcere in compagnia del marito, Elsa fu avvicinata da una coppia di carabinieri in divisa.

Buongiorno. Lei è la signora Boncompagni Elsa?

Cominciò a tremare. Avrebbe voluto dire mille cose, ma non riuscì nemmeno a pronunciare quel semplice “SI”.

Ci pensò suo marito a rispondere per lei; il carabiniere le porse un foglio:

Questa è una comunicazione di garanzia del magistrato, signora. La LAV la accusa di sevizie ad animali. Per la precisione afferma che lei ha torturato e poi dato la morte ad una cavalletta.

Elsa scoppiò a ridere, ma lo fece in modo nervoso:

A si? La Lega antivivisezione dice che ho seviziato e ucciso un insetto? Ma lo sapete quanto può fregarmene di questa cosa? Si tratta di una bazzecola, rispetto all’accusa di omicidio.

I gendarmi si scambiarono uno sguardo. Apparivano perplessi. Poi uno dei due la ammonì:

Ah, per lei certe cose sono delle fesserie? Dipende, cara signora, dipende…

I carabinieri se ne andarono; mentre suo marito le apriva la portiera della macchina, Elsa si sfogò:

Non me ne frega niente delle cavallette, va bene? E me ne frego pure della Lega antivivisezione.

Certo, certo. Va bene, va bene – fece lui in tono conciliante – ora  però calmati. Mamma mia, Elsa, non ti avevo mai vista così agitata.

Eh già – fece lei – Prima d’ora non ero mai stata in galera. E se per te dodici giorni dietro le sbarre rassomigliano ad una vacanza in Polinesia, ti assicuro che per me non è così.

Quando arrivarono davanti al palazzo dove abitavano, Elsa notò che il portiere, di solito gentile, le voltava volutamente le spalle.

Pensò che forse si stava sbagliando, ma quando incrociò con lo sguardo gli occhi di una vicina di casa che tornava dalla spesa, anche questa si girò dall’altra parte senza salutarla.

Elsa pensò che, sebbene fosse uscita pulita dall’inchiesta per omicidio, occorresse qualche giorno alla gente per convincersi della sua completa innocenza.

Finalmente era libera, e solo quello contava.

Non appena entrò in casa, si buttò sul divano e chiese dei figli.

Ehm, credo che stiano guardano la tele – rispose il marito con aria imbarazzata. – L’avvocato Perdente mi aveva detto che probabilmente stamattina ti avrebbero rilasciata, e perciò gli ho concesso di non andare a scuola.

Elsa era sconcertata. Si era aspettata che i suoi ragazzi avessero avuto voglia di festeggiare con lei la fine di un incubo, e invece …

Dopo un quarto d’ora, i figli uscirono dalle proprie camerette e si degnarono di salutarla.  Lo fecero con freddezza.

Lei sbottò:

Ho solo ucciso una cavalletta, cazzo!

A quel punto Arturo, il primogenito, le concesse che, forse, con il tempo lui e sua sorella avrebbero trovato la forza per perdonarla. Ma adesso era troppo presto.

Elsa li guardò con aria sdegnata. Andò in bagno, fece la pipì, si guardò allo specchio e rise.

Ma certo!

Quello era di sicuro un sogno.

Adesso lei sarebbe uscita dal bagno, accorgendosi che tutto era tornato a due settimane fa. Non aveva schiacciato una cavalletta sul pavimento del pullman, e nemmeno era esistito un onorevole dal nome così buffo, per di più ammazzato dalla sua puttana.

Uscì dal bagno.

Suo marito era in piedi al centro del soggiorno. Aveva disegnata sulla faccia un’espressione di rimprovero.

Lei lo interrogò con lo sguardo. Lui le porse un foglio.

Tieni. E’ per te. L’ha portato due minuti fa un agente di polizia.

Elsa dispiegò il foglio e lesse a voce alta:

Notifica di querela per il reato di maltrattamento di animali da parte dell’ENPA. Ente Nazionale per la Protezione degli Animali.

Si sentì mancare.

In quel momento suonarono alla porta di casa. Il marito, presagendo qualche altro guaio, rimase di sasso, ma poi si fece coraggio e andò ad aprire. Scambiò due parole con un uomo in divisa. Si trattava di un appuntato dei carabinieri. Chiuse la porta e porse ad Elsa un altro foglio.

Lei stavolta lesse in silenzio.

La sua bocca si contrasse in una smorfia di disgusto.

Si girò a guardare suo marito che, con aria avvilita, si era accasciato sul divano.

Anche la LIPU mi ha denunciato. Ma quell’accozzaglia di stronzi non si occupa di uccelli?

Mah – fece lui – Uccelli, cavallette… sempre roba che vola è.

Seguì un lungo silenzio.

Poi Amelia, la secondogenita, parlò:

Vergognati, mamma.

Elsa guardò sua figlia ed ebbe la sensazione di conoscerla per la prima volta.

A quel punto si mise a gridare.

La voce, proprio come l’intero suo sistema nervoso, era ormai fuori controllo.

Il marito e i figli si allontanarono da lei.

Elsa diede in escandescenze e per un buon quarto d’ora ruppe tutto ciò che trovò sul suo percorso.

Coniuge e prole si ripararono dietro il divano a tre posti. Nessuno di loro osava fiatare.

Soprammobili, portafoto con dentro i ricordi della prima comunione dei figli, quadri, quadretti, televisore, sedie, servizio di tazze cinesi da the e bicchieri da champagne finirono in frantumi alla presenza dei suoi familiari che, attoniti, assistettero impotenti al massacro.

D’un tratto tornò la calma.

Elsa aprì la porta-finestra del balcone, con la mano rivolse a marito e figli un saluto e si sedette a cavalcioni sulla ringhiera.

Sotto di lei c’era il soffice prato condominiale, ma la sua abitazione si trovava quindici metri più in alto, ed una caduta le sarebbe stata fatale.

–   –   –

Gianluca, la cui attenzione, come quella di parecchi altri condomini, era stata attratta dalle urla provenienti dall’appartamento al quarto piano, si era affacciato alla finestra e assistette alla scena finale di quella tragedia.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo la donna restò in equilibrio sulla ringhiera. Dieci secondi soltanto, o forse un minuto abbondante.

Mentre lei precipitava, la sentì dire “Vaffanculo!”

Era rivolto al marito? Ai figli? Al mondo intero?

Forse era dedicato a tutti e a nessuno in particolare.

Gianluca, inorridito, reagì prontamente e scese le scale di corsa per andare a soccorrere quella poveretta. Mentre le teneva la mano, non sentendo il battito cardiaco si rese conto che non restava che farle il  funerale.

Pensò che quello fosse un vero peccato: una donna ancora giovane e bella che si toglie la vita, è un preciso atto d’accusa verso la società.

Scosse la testa con aria sconsolata: com’era possibile che il mondo fosse diventato così brutto?

Nonostante la giovane età, Gianluca era un ragazzo riflessivo. Aveva anche un animo sensibile, che da un po’ di tempo gli faceva avvertire dei segnali preoccupanti, ma mai avrebbe immaginato che il comune senso di umanità potesse andare a farsi fottere così velocemente.

Non potendo fare più niente di utile per la sua vicina di casa, stava per tornare a casa. Provava un grande senso di amarezza, quasi che la signora Elsa Boncompagni fosse stata una sua parente.

Fu allora che notò due condomini accalorarsi in una discussione.

Si trattava di un ragazzo e di una signora anziana.

Si avvicinò incuriosito.

Il ragazzo aveva all’incirca la sua età, cioè ventiquattro anni, e stava spiegando alla donna che, dal punto di vista tecnico, quello compiuto dalla signora Boncompagni non poteva essere considerato un tuffo perfetto.

Lei ribatté con convinzione che il tuffo non sarà stato stilisticamente perfetto, ma si era comunque trattato di un bel gesto da acrobata.

Poco distante, una ragazzina parlava con un’amica.

Gianluca lasciò il giovanotto e la sua matura interlocutrice, fece due passi di lato accostandosi alle ragazze.

La prima aveva le lacrime agli occhi: faceva delle considerazioni sul pericolo schivato per un soffio:

Ma tu ci pensi, Beatrice, se in quel momento là sotto ci passava un gatto, oppure un cagnolino?

Guarda, Pamela, una cosa talmente brutta non voglio prenderla nemmeno in considerazione – rispose l’altra, in tono angosciato.

Frattanto un signore sulla cinquantina, che abitava da poco in quel condominio, a voce alta stava facendo la stima dei danni causati dalla caduta della suicida.

Parlava con fare competente, e tutto lasciava credere che di mestiere facesse il ricercatore, oppure l’insegnante di qualche materia.

Dunque… vediamo un po’. Considerato che sotto al suo balcone c’è un formicaio, a occhio e croce quella matta avrà schiacciato non meno di venti o trenta di quelle povere bestiole, che facevano il loro lavoro senza arrecare alcun fastidio a chicchessia. La gente, prima di fare certe cose, avrebbe il dovere di pensare anche ai danni collaterali!

A Gianluca sembrava che della donna da poco precipitata dal quarto piano, a nessuno importasse niente.

Un signore anziano vestito con una tuta di tessuto sintetico e scarpe da ginnastica da quattro soldi, innescò una nuova discussione con il tizio che aveva disquisito sul probabile numero di formiche abbattuto dalla caduta di Elsa.

Ha sentito, professore, di quel delinquente entrato ieri in una villa con l’intenzione di rubare, che è stato sbranato dai due rottweiler del proprietario?

Certo che ho sentito, caro lei. Ben gli sta, a quel farabutto. Adesso sta all’altro mondo, e si starà pentendo delle sue malefatte.

–  Eh già. – fece il vecchio – meno male che qualcuno che difende le cose di nostra proprietà esiste ancora. Apposta il cane è definito il miglior amico dell’uomo!

Gianluca inorridì. Pensò che a nessuno piace che qualcuno gli entri in casa per sottrargli dei beni, però se il ragazzo sbranato dai cani fosse stato il figlio di uno di quei signori che ne avevano appena parlato con tanto odio, di sicuro non avrebbero usato certe parole.

Stufo di quei discorsi, decise di andarsene.

Essendo un giovane a modo, non mancò di salutare.

Tutti si girarono a guardarlo.

Sembravano sorpresi.

Però tutti risposero educatamente al saluto.