CAPITALISMO E ASPETTI SOCIALI

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  –      di Michele Falcone      –                    

Di tutti questi aspetti: sociale, economico, politico, culturale, religioso, artistico, scientifico, tecnologico, militare… senza dubbio il più importante per comprendere le caratteristiche di una civiltà è il primo.

Gli aspetti sociali sono quelli più globali, più concreti, più dinamici e in fondo più tipici dell’essere umano. Sono quelli che misurano il grado di una civiltà, il suo livello di umanizzazione.

Il capitalismo possiede, in genere, dei criteri di misurazione che hanno ben poco a che vedere con le questioni sociali. Una società viene definita “avanzata” se ha, p.es., alti indici di produttività e di reddito economico pro-capite, oppure se ha un forte sviluppo tecnico-scientifico e se, sul piano politico, la sua democrazia è di tipo parlamentare. E così via. Gli indici sono o formali o meramente quantitativi.

Sotto il capitalismo gli indici sociali vengono visti come una conseguenza logica di tutto il resto. Cioè se una società è economicamente agiata, sarà anche socialmente equilibrata, senza conflitti tra le classi.

capitalismo CAPITALISMO E ASPETTI SOCIALIQuesto modo di ragionare è tutto meno che logico. Infatti, se c’è una cosa che il benessere economico non può garantire in maniera automatica, è proprio il benessere sociale. Il benessere è “sociale” solo per una ristretta minoranza di privilegiati.

Questa minoranza va vista, all’interno della nazione metropolitana, da due prospettive: all’interno della stessa nazione, tra sfruttati e sfruttatori; e nel rapporto tra Nord e Sud, dove lo sfruttato occidentale partecipa comunque allo sfruttamento del Sud.

Di regola la diffusione del benessere nelle città metropolitane occidentali è pagato con la diffusione del malessere nelle periferie coloniali o neocoloniali.

A partire dalla nascita dell’imperialismo, la cui prima conclusione è avvenuta con lo scoppio della I guerra mondiale, le grandi potenze occidentali hanno progressivamente spostato il teatro dei loro conflitti verso i paesi del Terzo mondo. Oggi in occidente è difficile vedere una grande maggioranza di persone disagiate. I conflitti risalenti agli albori della rivoluzione industriale sono stati attutiti proprio dallo sfruttamento neocoloniale (lo sfruttamento è “nuovo” perché all’emancipazione politica delle colonie, conseguita dopo la II guerra mondiale, non ha fatto seguito alcuna vera indipendenza economica).

I fenomeni migratori sono una diretta conseguenza dei rapporti distorti tra Nord e Sud e quindi una premessa per la rivendicazione del primato degli aspetti sociali. I rapporti sono distorti perché l’occidente pone dei ritmi di sviluppo per i quali occorre uno sfruttamento di risorse sempre più cospicuo, che il Terzo mondo è sempre meno in grado di sopportare.

Nell’Italia post-unitaria l’emigrazione è stata, dopo la fase del brigantaggio, una soluzione disperata di popolazioni che non avevano più niente da perdere: una sorta di protesta al negativo. Popolazioni non sviluppate sul piano della consapevolezza politica, non possono fare rivoluzioni.

L’occidente è così miope che si oppone a tali flussi come se la loro pericolosità fosse superiore allo scatenamento di una rivoluzione politica che rimetta in discussione i rapporti di dipendenza economica, sia che questa rivoluzione finisca col diventare anticapitalistica, sia invece che porti a una nuova ripartizione imperialista delle risorse mondiali.

Tra l’altro l’opposizione ai flussi non caratterizza tanto i ceti benestanti, che anzi se ne servono per sfruttare manodopera disposta a qualunque tipo di lavoro e di salario, quanto piuttosto il ceto politico che, per dimostrare la propria ragion d’essere, ha sempre bisogno di identificare un nemico contro cui combattere, o comunque è più disposta, temendo di perdere il necessario consenso, a fare da cassa di risonanza per quei ceti, largamente maggioritari, che da un lato si sentono minacciati (nel lavoro, nella cultura, nella religione ecc.) dai nuovi concorrenti stranieri e, dall’altro, non hanno mezzi o non sono nelle condizioni ideali per poterli sfruttare.

Quali potrebbero essere, è da chiedersi, gli scenari venturi?

bancarotta di nazioni terzomondiali con conseguente bancarotta di istituti finanziari occidentali;

aumento considerevole di flussi migratori da Sud verso Nord;

tentativi da parte dei paesi emergenti di diventare paesi capitalisti avanzati – rischi di guerra regionale o addirittura mondiale,

 tentativi di coalizzazioni da parte di aree geografiche terzomondiali in funzione anti-occidentale;

tentativi di rivoluzioni politiche a indirizzo social-comunista in nazioni terzomondiali;

affermazione dell’idea secondo cui il crollo del socialismo reale costituisce un fattore di progresso verso lo sviluppo di un socialismo democratico economicamente alternativo al capitalismo;

sviluppo progressivo dell’idea di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura in forza della necessità di una transizione dal capitalismo (nella sua fase imperialistica) a una forma di socialismo di nuova generazione, che mentre in economia presenta forme di capitalismo, in politica invece afferma la dittatura di partito – è l’esperienza cinese.