OSCAR 2021, “NOMADLAND”: NIENTE SI PERDE DAVVERO

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di Mariantonietta Losanno 

“Dedicated to the ones who had to depart. See you down the road”. Con questa frase Chloé Zhao si congeda dallo spettatore dopo un viaggio tra i deserti e gli altopiani degli Stati Uniti occidentali. “Nomadland” è una sorta di “regalo” (o forse un aiuto), un’opera che l’autrice cinese dedica a tutti coloro che hanno perso qualcuno nella loro vita. Una pellicola itinerante, incentrata sul bisogno costante di trovare se stessi: un inno alla solitudine, quella voluta e non imposta, quella che aiuta a rialzarsi dopo che i legami con il mondo sembrano essere recisi in modo irreversibile. Perché è proprio la solitudine l’unica vera compagna di viaggio per chi ha bisogno di ricominciare da zero. E non si tratta di azzerare, cercando di rimuovere il proprio passato, anzi. Il senso di ripartire dopo un lutto è quello di preservare i ricordi, cercando però di eliminare il dolore. Provare a credere che non è mai la fine e che “non ci sono mai addii definitivi”

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La saracinesca di un deposito si apre.“Nomadland” – che ha ottenuto sei candidature e vinto tre Premi Oscar – inizia così: con un’apertura. In una solo inquadratura c’è già tutto il significato del film: ricominciare. Chloé Zhao dirige senza “paura” e segue il cammino di un’anima in perpetuo movimento. 

Empire, stato del Nevada. Fern ha perso ogni cosa. La fabbrica presso cui lei e suo marito Bo lavoravano ha chiuso i battenti, lasciando i dipendenti letteralmente per strada. Bo se n’è andato dopo una lunga malattia, e ora Fern vive di lavoretti saltuari – perché non ha diritto ai sussidi statali e non ha l’età per rimettersi in gioco in un Paese in crisi – e vive da nomade, cercando di rimettere insieme i pezzi della sua vita. Si divide tra un garage in cui sono rinchiuse tutte le cose del marito e un van che ha riempito di tutto ciò che per lei ha ancora un significato. 

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In “Nomadland” non ci sono confini. Gli spazi sono così grandi da non avere limiti. Anche in questo – come nell’inquadratura iniziale – c’è l’essenza del film. Ricostituirsi dopo un lutto (o dopo una perdita di altra natura) significa non porre confini: assecondare se stessi concedendosi tempo e spazio necessari alla rinascita. Lasciare che tutto scorra. La regista dimostra di non avere paura di affrontare non solo il lutto, ma anche il lavoro e soprattutto la sua assenza. Come si può pensare di darsi un nuovo inizio se non si ha la possibilità di “aggrapparsi” ad un lavoro che dia sostentamento? Può essere, però, davvero il lavoro il sostegno di cui ha bisogno una persona che avverte un vuoto così forte dentro di sé? Chloé Zhao non abbassa mai lo sguardo, non temendo la commozione, lo strazio e lo smarrimento esistenziale. Non c’è retorica, ma solo poesia. Zhao entra nel mondo di Fern: un mondo pieno di buchi, di carenze incolmabili. È proprio in quei “buchi” che bisogna trovare la forza di riappropriarsi della propria dignità, nonostante la società sembra infischiarsene. “Nomadland” è un dramma viscerale che si sofferma sulla definizione di “casa”: decidere dove “stare” significa scegliere chi vogliamo essere. Legarsi ai propri muri di casa, cioè a tutto ciò che è tangibile, oppure considerare ogni posto in cui ci troviamo una possibile dimora: sta in questo la scelta. Non a caso, Fern si definisce “houseless” e non “homeless”. Le musiche evocative di Ludovico Einaudi accompagnano lo spettatore in un percorso di crescita e riaffermazione della propria persona. Oltre che inno alla vita, “Nomadland” è un incoraggiamento a viverla a pieno. Come si conclude il viaggio di Fern? Rendendosi conto che nonostante tutto, resta solo una cosa da ricordare: “ci vediamo lungo la strada”.