“SECURITY”: UN’IDEA DI SATIRA SOCIALE CON TROPPE SEMPLIFICAZIONI E POCA INCISIVITÀ

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di Mariantonietta Losanno 

Al posto della cittadina di Stoneleigh del New England dove è ambientato il libro di Stephene Amidon (lo stesso autore de “Il capitale umano”) da cui è tratto il film, ci troviamo nel piccolo comune in provincia di Lucca: Forte dei Marmi. Un luogo tranquillo e spensierato, dove non ci si può immaginare che accada niente di “brutto”: “una cartolina dove tutto sembra una perfetta messa in scena”. Un angolo di paradiso estivo per il turismo d’élite. E si sa, quando ci si riferisce a persone di élite, non ci si aspetta che avvengano vicende scabrose. Le videocamere di sorveglianza di Roberto Santini (Marco D’Amore), però, potrebbero smentire quest’idea e mettere in luce quello che si nasconde nelle sontuose ville di persone benestanti e “potenti”. La scoperta della violenza subita dalla giovane studentessa Maria Spezi fa, infatti, emergere un ambiente corrotto e perverso, in cui non c’è un unico e solo colpevole. 

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La riflessione da cui parte il film è molto attuale: che prezzo siamo disposti a pagare per la nostra sicurezza? Il problema, però, è che il film non riesce a mantenere la tensione del romanzo. “Security” si presenta come un thriller sottotono che sfrutta i soliti espedienti del caso: una cittadina tranquilla ed idilliaca (una sorta di “Twin Peaks”), persone “perbene” che nascondono segreti, scandali e violenze nascosti da un perbenismo di facciata. Non ci sono emozioni, colpi di scena o momenti memorabili: la scrittura è ridondante e il gioco di rimandi tra la macchina da presa e le videocamere di sorveglianza funzionano solo nelle sequenze iniziali. Nulla di nuovo, ma soprattutto nulla di studiato; alcuni pezzi del puzzle (forse volutamente) cinematograficamente non combaciano e manca una linearità di base. Sostanzialmente, il film vuole soffermarsi non tanto sul bisogno di sentirsi al sicuro in termini di mera sicurezza, ma sulla necessità di mettere al sicuro delle vicende che devono restare segrete. Questo è quello a cui le classi agiate aspirano e, addirittura, credono di avere il diritto di pretendere. Come se fossero in qualche modo legittimati a compiere azioni di ogni tipo e di poterle poi insabbiare in modo che il loro status sociale venga salvaguardato. È questo, dunque, il tipo di sicurezza di cui si tratta. È più importante proteggere le informazioni che difendersi da possibili altri pericoli.

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Securityè un’analisi – poco sviluppata – sull’esclusività di alcune classi sociali. Affinché la percezione di unicità resti tale, è necessario, poi, trovare un capro espiatorio che si assuma le responsabilità. Nonostante il film sia poco incisivo, la riflessione che suggerisce racconta l’Italia di oggi. Tutti si muovono “in salita”, preoccupati di raggiungere il loro obiettivo, sia che si tratti di una scalata sociale che di un successo alle elezioni o di un modo per nascondere delle verità. Forse il thriller non è propriamente nella corde di Peter Chelsom, nonostante il materiale di partenza; Paolo Virzì, ne “Il capitale umano” era riuscito, invece, a realizzare una pungente satira sociale. Quello che si può apprezzare in “Security”, però, è la riflessione sulla ricchezza che sembra (oggi come sempre) esulare da ogni discorso morale. È più facile trovare un colpevole che si addica a quell’idea di reato e che soddisfi, quindi, le aspettative di tutti. La realtà può essere manipolata omettendo certi aspetti: in fondo, è più facile che certi luoghi comuni non vengano sfatati. Sindaci, miliardari e uomini potenti non potrebbero mai violentare una ragazza: “Security”, quindi, è un riflesso della falsità in cui viviamo, ed è proprio per questo che avrebbe potuto essere più d’impatto e, soprattutto, dimostrare maggiore credibilità. Le tematiche sarebbero dovute essere trattate a pieno, e non solo sfiorate superficialmente.