“LUCA”: UNA LETTERA D’AMORE ALL’ITALIA (E AL CINEMA)

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di Mariantonietta Losanno

Coraggio, fantasia e tradizione sono i tre ingredienti del nuovo film Pixar diretto da Enrico Casarosa. Luca e Alberto sono due mostri marini che, una volta usciti dall’acqua, diventano umani. Luca nutre una curiosità indicibile per “il mondo di sopra”, ma i genitori gli vietano di salire in superficie. Alberto, invece, si trova molto più spesso sulla terraferma, ed è proprio lui ad insinuare nell’amico il desiderio di conoscere quel mondo misterioso. Insieme decideranno di costruire una Vespa, di vincere una gara e di godersi una vita all’insegna dell’avventura. Queste tre componenti – coraggio, fantasia e tradizione – vengono calibrate con intelligenza: “Luca” è, sostanzialmente, una favola colorata e spensierata, adatta a tutte le età. È una pellicola leggera e appassionante, ma è anche un film – così come è stato per “Inside Out”, “Up” o per il più recente “Soul” – in cui è evidente una tradizione alle spalle. E per tradizione si intende quella che va dal più immediato riferimento a “La Sirenetta” (si pone, nel film, addirittura lo stesso “problema” con una forchetta, ma questa volta non viene utilizzata come pettine), a quello di un cinema molto più impegnativo – ed impegnato – come quello di Federico Fellini. Infatti, una digressione sul cinema degli anni ‘50, è – oltre che necessaria – incoraggiata dal regista stesso. 

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“La strada”, “Un’estate da ricordare”, “Vacanze romane”, “Ventimila leghe sotto i mari”: il nuovo film Pixar – interamente ambientato in Italia – è intriso di riferimenti al cinema degli anni ‘50. Alcune citazioni sono più evidenti di altre (nel film compaiono delle locandine di film), altre sono più sottili (si intravede, ad esempio, Marcello Mastroianni per pochi istanti trasmesso in televisione e in una fotografia).

Mentre si esauriva lo sguardo neorealista, si sviluppavano “Pane, amore e fantasia” (1953) di Comencini e “Bellissima” (1951) di Luchino Visconti: opere in cui era ancora evidente la tradizione precedente, ma capaci di esprimere un’idea di “cambiamento”. Quello degli anni ‘50 è stato un cinema nato in un clima di restaurazione politica e che si è soffermato (anche) su tematiche esistenziali, pure se calate in un contesto sociale attentamente riprodotto. È stato il cinema di Antonioni, che nel 1950 in “Cronaca di un amore” – suo primo lungometraggio – analizzava la condizione di aridità spirituale e freddezza morale dell’alta borghesia milanese; e nel 1953 ne “I Vinti” realizzava una testimonianza dell’impatto con l’ambiente da parte della generazione uscita dalla guerra, quando l’aggressività dei nuovi “miti” si innestava sulla fragilità psicologica dei giovani. È stato – anche e soprattutto – il cinema di Fellini, che ne “La strada” (opera che consacrò il regista a livello mondiale e in cui è evidente l’“eredità” di Rossellini dopo la collaborazione con “Roma città aperta” e “Paisà”) aveva condotto un’analisi toccante sull’animo umano: una pellicola che ha tradotto sullo schermo l’idea di cinema di Fellini. Potremmo addirittura dire che negli anni ‘50 Fellini dominava la scena cinematografica, anche e soprattutto grazie all’esperienza con Rossellini: “…da Rossellini mi pare di aver appreso la possibilità di camminare in equilibrio in mezzo alle condizioni più avverse, più contrastanti, e nello stesso la capacità naturale di volgere a proprio vantaggio queste avversità e questi contrasti, tramutarli in un sentimento, in un valore emozionale, in un punto di vista. Questo faceva Rossellini: viveva la vita di un film come un’esperienza meravigliosa da vivere e simultaneamente raccontare”, ha detto il regista de “Lo sceicco bianco” (1952) e “I vitelloni” (1953). 

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“Luca”, disdegnando “le Vespe truccate anni Sessanta” di Cremonini per omaggiare Bennato e Morandi, è una riflessione sulla difficoltà di accettazione di tutto quello che è “diverso”: Luca è disposto a lasciare il suo mondo e la sua famiglia per sentirsi indipendente, ma soprattutto libero di imparare e di lasciarsi affascinare. Ed è disposto a farlo ad ogni costo, affrontando tutte le sue paure. Per conoscere, capire ed accettare. E, in più, Luca alla paura dà un nome: Bruno. Allora, tutte quelle volte in cui crede di non farcela, si ripete “è Bruno che parla, non io”, per darsi coraggio e ripartire. Un modo utile – seppure infantile – per accettare anche i sentimenti negativi e per fare in modo di conviverci; un modo per renderli “meno estranei” e quindi meno terrificanti. “Luca” celebra l’amicizia nella sua forma più autentica, quella che antepone il bene dell’altro al proprio e che riesce ad andare oltre ogni diversità caratteriale; ma, più di tutto, celebra il desiderio di sentirsi liberi di vivere qualcosa di straordinario anche soltanto in un spazio immateriale e anche solo per il breve tempo di un’estate. La pellicola di Enrico Casarosa – oltre ad essere un esplicito omaggio alla sua Liguria – ci ricorda quanto è straordinaria la semplicità, quanto è fondamentale sentirsi se stessi (in famiglia, come in amicizia e in amore) e quanto sia sottile la linea che unisce chi va via da chi rimane. E il fatto che i protagonisti siano due ragazzini rappresenta un valore aggiunto: sono incauti dei pericoli, si avventurano cercando il più possibile di assaporare la vita degli esseri umani: sono mossi da quella curiosità che si nasconde dietro ogni altro loro coetaneo. Forse il messaggio potrà sembrare banale, ma non è detto che la banalità debba avere necessariamente una connotazione negativa. “Luca” ci regala spensieratezza e ci pone di fronte a un’innegabile verità: imparare a conoscersi è la chiave per riconoscere chi è in grado di amarci senza finzioni. E per farlo, bisogna capire quando zittire quella voce interiore – “Bruno” – che a volte può aiutarci a superare dei limiti, ma anche volte può anche ricordarci quali mantenere saldi. 

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“Luca” sintetizza l’infanzia in un modo semplice ma poetico. E lo fa omaggiando la musica, il cinema, i paesaggi, i valori e i sentimenti. La presenza di alcuni stereotipi, come, ad esempio, il fatto che nel film si mangi sempre la pasta, sono in realtà un dettaglio capace di comunicare qualcosa: non si tratta di una semplice pasta al pomodoro, ma delle “trenette al pesto”, espressione della tradizione ligure. Il film, dunque, è una vera e propria lettera d’amore all’Italia. Oppure, il fatto che si omaggi la Vespa, potrebbe essere visto come un richiamo a “I diari della motocicletta” (ambientato, tra l’altro, nel 1952), che racconta la storia di due giovani studenti universitari che partirono alla scoperta dell’America Latina in sella alla motocicletta “Poderosa”, attraverso l’Argentina, il Perù ed il Cile. Si tratta di omaggi e non di stereotipi, appunto. 

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L’ispirazione nasce da me, dal mio migliore amico, e dalla nostra amicizia. Ci siamo conosciuti quando avevamo circa undici o dodici anni. Io ero molto timido e cauto, lui era libero di mettersi nei guai e di correre in giro. Questo mi ha davvero spalancato il mondo!”, ha detto Casarosa. Il fatto che la pellicola attinga da questi ricordi rende – ancora di più – “Luca” una storia autentica e di formazione, che dimostra (per l’ennesima volta) come la Pixar riesca a rivolgersi a più generazioni contemporaneamente. A volte, la semplicità, può essere la ricetta perfetta.