“L’ULTIMA SEQUENZA”, MARIO SESTI: CONTRASTARE QUELLA CHE CHRIS MARKER DEFINISCE L’“IMPERMANENZA DELLE COSE”

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di Mariantonietta Losanno 

%name “L’ULTIMA SEQUENZA”, MARIO SESTI: CONTRASTARE QUELLA CHE CHRIS MARKER DEFINISCE L’“IMPERMANENZA DELLE COSE”È Gideon Bachmann a condurre una lunga intervista – sotto forma di confessione – a Federico Fellini, in una modalità  inedita e in uno spazio che da subito appare intimo, il retroscena. Perché, se è la ribalta il luogo dove si svolge la rappresentazione (costituita da colui che parla e dalla totalità dei presenti partecipi attivamente all’interazione), il retroscena è il luogo in cui togliere la maschera e essere se stessi, facendo ricorso (anche) ad un linguaggio più libero e meno formale. Questa distinzione elaborata dal sociologo Erving Goffman ne La vita quotidiana come rappresentazione, ci introduce all’interno del dialogo (rivelatorio ed illuminante) non solo tra due artisti – rispettivamente un fotografo e giornalista e un regista – ma tra quelli che sembrano due amici, che analizzano il Cinema e le sue funzioni. Il materiale prezioso che ne scaturisce viene conservato da Bachmann dal 1963 al 2000, con l’idea – forse – di ricavarne un libro, oppure (secondo la versione di Mario Sesti, il regista che ne ha prodotto il documentario) Fellini ha ipotizzato che non sarebbe stato utilizzato per realizzare nulla e, proprio per questo, si è concesso una forma lessicale più semplice ed incisiva. In una libertà totale, senza alcuna censura.

È stato Mario Sesti (regista, giornalista e critico cinematografico), infatti, ad avere l’intuizione di realizzare – poco dopo aver fatto restaurare – un film documentario, ponendosi come riferimento La jetée di Chris Marker. È stata l’associazione di cinefili Cinemazero ad acquisire, poi, tutto il materiale di Bachmann. All’inizio, l’idea era quella di allestire una mostra fotografica, ma con tutto quel materiale bisognava spingersi oltre, soprattutto alla luce di una scoperta (“filologica, storica e di cronaca”, secondo Sesti): quella dell’ultima sequenza, da cui, appunto, prende il nome il documentario. Dopo averne parlato con Tullio Kezich, il maggiore critico dell’opera felliniana, il progetto prende realmente forma. Rifacendosi al modello di Marker e al suo film fatto solo di foto (da cui ha attinto Terry Gilliam per il suo L’esercito delle 12 scimmie), Sesti aggiunge il parlato che dà  temporalità , nonostante le fotografie (dalla qualità  straordinaria, con degli incredibili contrasti di luce) non si muovano. Tutto acquista, dunque, una dimensione temporale attraverso il discorso. All’interno del documentario, poi, confluiscono le competenze e la formazione di Sesti applicate “in termini di genere”: “Si parla di qualcosa che, per tutta la durata del film, non si vede. È come se l’opera assumesse (quasi) i connotati di un thriller. Anche se, di base, l’approccio è quello storico-critico: mi sono posto, cioè, a metà tra il cronista e lo storico. Ho intervistato tutte le persone che avevano visto o partecipato a “quella” sequenza (Sandra Milo, Anouk Aimée, Rossella Falk, Lina Wertmü¼ller, Marina Ceratto). Ho fatto un lavoro sul campo, per raccogliere indizi di quell’evento completamente scomparso”, ha spiegato il regista. Attraverso questo lavoro di ricerca, Sesti si è anche soffermato sui suoni, recuperandone il valore essenziale all’interno del cinema di Fellini, come il rumore del vento, che ha utilizzato per I vitelloni e il Satyricon

%name “L’ULTIMA SEQUENZA”, MARIO SESTI: CONTRASTARE QUELLA CHE CHRIS MARKER DEFINISCE L’“IMPERMANENZA DELLE COSE”Il punto di partenza, quindi, è proprio , punto cardine della storia del Cinema. Un caso unico, imparagonabile a qualsiasi altro. Film sullo smarrimento di un artista che ha dato un’opera come La dolce vita e che affronta un lacerante tormento interiore prima della ripresa della propria attività  creativa,  nel dubbio di aver esaurito, in precedenza, completamente se stesso. Si tratta – in quest’opera autobiografica – dell’ora della verità, come forse, prima, non era accaduto mai. Fellini legge dentro di sé, trasfigura le sue emozioni, racconta la sua intima vertigine, dopo uno sforzo creativo che lo ha fermato, sbarrandogli la strada tanto da dover fuggire “via cielo”, dal momento in cui non ci sono altre vie d’uscita. Compone la sua memoria, con molta libertà, con ricerca stilistica personale (nonostante in qualcosa ricordi Il posto delle fragole di Bergman o L’anno scorso a Marienbad di Resnais) con conclusioni assolutamente indipendenti, autonome anche nei loro valori espressivi. si presenta come un’improvvisazione geniale, il gioco di abilità  più difficile che il regista abbia mai affrontato. È come assistere ad un funambolo che esegue delle acrobazie sopra la folla, apparentemente sciolto, disinvolto e in stato di grazia, sempre sul punto di fare un salto più pericoloso e insieme cadere per sfracellarsi al suolo. L’acrobata, però, sa come compiere al momento giusto la capovolta giusta, salvandosi e vincendo. Ed infatti al pubblico che assiste – fino in fondo – all’opera di Fellini non rimane che applaudire: il gioco è fatto, l’esercizio è riuscito. 

Cos’è determinante per capire ? Fellini pone la domanda – retorica – a Bachmann, per poi rispondere da solo: “Che vuol dire capire? È un film da sentire!” Lo spettatore non dovrebbe essere condizionato – o addirittura corrotto – da un tipo di percezione. Non è necessario, allora, che le cose che si mostrino siano autentiche, anzi, è persino meglio che non lo siano. Ciò che dovrebbe essere autentica è l’emozione che si prova nel vedere. Fellini descrive il suo lavoro come una “testimonianza della vita”, una specie di specchio – cioè – con il quale è possibile un certo dialogo, che non si pone mai l’obiettivo di approdare a soluzioni definitive. Che non cerchi neppure una risoluzione per non ingannare se stesso e non perdere spontaneità. L’intento, quindi, è quello di “liberare il cinema dalla schiavitù della realtà”, che è come una condanna. Ed è quello su cui Sesti insiste, parlando della rispondenza di ciò che viene detto e ciò che viene mostrato: “Bisogna creare delle discontinuità, per cui è possibile che le associazioni si perdano, ma in qualche modo, poi, si riescano a ritrovare. È questo il ritmo del documentario ed è questa – credo – la modalità  per gestire l’attenzione dello spettatore. La percezione non deve essere de-sensibilizzata da uno stimolo continuamente ripetuto”. Sta tutto lì: nel non perdere il senso del gioco, creando le condizioni per dare vita alle cose. “Sono vissuto, non io vivo”, dice Fellini a Bachmann, “è la cosa che si occupa di me, come se si trattasse di un viaggio che ci conduce e che non siamo noi a condurre. Quando giro un film ho la sensazione che qualcun altro decida per me, sono come in trance”

Saranno state motivazioni estetiche quelle che hanno spinto Fellini a cambiare quell’ultima sequenza? Probabilmente, spiega Sesti, potrebbero essere ragioni di suono: “Fellini desiderava un finale con una musica, non con il solo rumore del treno”. Quello che resta, è che Fellini quel finale lo ha montato – e quindi vissuto – e solo successivamente lo ha tolto: questo fa sì che il finale attuale del film acquisisca tutta la sua vita. “Quello che ha eliminato è rimasto comunque nel film, nello sguardo di Fellini”, ha raccontato il critico, tornando così al pensiero di Fellini sull’importanza di opere come quelle di Proust o Joyce: “Per poter assorbire il loro contenuto, basta vivere, perché è la vita stessa ad essere ormai condizionata dalla loro importanza”. Quello che non c’è si rivela presente, tangibile, reale, vissuto.