“THE LIGHTHOUSE”: IL VECCHIO, IL GIOVANE E IL MARE

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di Mariantonietta Losanno

“Ciò che scambiate per pazzia non è altro che estremo godimento dei sensi”, ha scritto Edgar Allan Poe. Ed è stato proprio Poe l’ispirazione di Robert Eggers, che voleva seguire, inizialmente, il suggerimento del fratello e adattare sul grande schermo una sua opera incompiuta, “Il faro”. Il risultato è, in realtà, un’opera “nuova” (distante dalle intenzioni iniziali ma non per l’originalità), che scava a fondo nella psiche umana. Ci troviamo su un’isola remota al largo delle coste del New England. Ephraim Winslow (Robert Pattinson) decide di accettare un lavoro come guardiano del faro per un mese; una volta arrivato sul posto, conosce il suo supervisore, Thomas Wake (Willem Dafoe), un uomo molto esigente e irascibile che gli intima di non salire sulla cima del faro. I due saranno costretti ad una convivenza forzata a causa di una tempesta: la vicenda si trasforma, così, in un’intrigante storia ipnotica e allucinante. 

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Il vecchio, il giovane e il mare. “The Lighthouse” vive di eredità e retaggi; è un dramma da camera (in cui la camera è il faro) che somiglia – seppure si tratti di esempi molto lontani – alla “Venere in pelliccia” di Polański, a “Una giornata particolare” di Ettore Scola o al più recente “Malcolm & Marie” di Sam Levison, il primo film ad essere completato dopo lo scoppio della pandemia di COVID-19. Robert Pattinson risente fortemente di un modello di riferimento troppo “ingombrante”, rappresentato dal personaggio di Jack Torrance – succube della sua alienazione – in “Shining”. E ancora, di esempi di “cinema da isolamento” – anche in mare – se ne possono fare tanti altri; basti pensare all’”oppressione dell’affollamento” in “Carnage” (ancora) di Polański, in “Climax” di Gaspar Noé, o nelle opere tratte dai romanzi di Agatha Christie come “Dieci piccoli indiani” o “Assassinio sull’Orient Express”. Il bianco e nero che si potrebbe definire minimalista ma che è, in realtà, massimalista, il formato particolare 1,19:1, l’atmosfera gotica e le intepretazioni dei due protagonisti tentano di elevare la pellicola di Eggers senza riuscire a creare un’opera a sé stante. 

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“The Lighthouse” è un viaggio nella follia umana inesorabile ma (troppo) lento. I frammenti di immaginazione che emergono pongono lo spettatore in uno stato confusionale (lo stesso che provano i due personaggi a causa della loro costante ubriachezza) che, più che portarlo a riflettere sullo scorrere del tempo, lo distolgono dalla “destinazione”. Allora, il formato che rappresentava quell’aspetto particolare si trasforma facilmente in una limitazione del campo visivo. Il problema di fondo è che “non si riesce a vedere” una reale intenzione, una direzione, un intento: quella luce che dovrebbe rappresentare il sapere e la conoscenza sembra come oscurata. Eggers voleva adattare la sua opera ai nostri tempi, mettendo in scena i “nuovi” tormenti e i “nuovi” modi di concepire il mondo, ma eccede con l’uso del soprannaturale, con le visioni disturbanti, con gli eccessivi momenti stranianti e con le forzature poco sincere. Se il regista avesse lavorato più di sottrazione che di addizione, “quella luce” sarebbe apparsa sicuramente più visibile. La scrittura, poi, risulta altalenante e vittima della schizofrenia dei due protagonisti; questo comporta un’artificiosità che toglie autenticità all’opera. Follia e claustrofobia non si equilibrano come dovrebbero: Eggers si diverte (fin troppo) a citare e a muoversi tran l’onirico e la realtà senza mantenere una linea di base coerente.