CORTOMETRAGGI D’AUTORE (VOL.2): SOLUZIONI NARRATIVE CREATIVE E MAI LIMITATE

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di Mariantonietta Losanno

Un’espressione di sé e del cinema in pochi minuti: molti registi si sono lasciati affascinare da questa dimensione cinematografica, e non solo come scelta per esordire alla regia. È possibile lasciarsi stupire da un corto di appena dieci minuti? Sintesi, approfondimento e tecnica: tre elementi che – bilanciati – permettono di esprimere una o più idee senza dover cedere all’approssimazione. 

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1: “The Alphabet”, David Lynch 

Molti “quadri” di Lynch evocano il mondo di un bambino colpito dal terrore, non somigliano ai ricordi di un’infanzia felice. Lynch preferisce ricordare “a modo suo”, evadere dall’interno della propria mente e scivolare dentro un mondo completamente diverso. Nelle sue opere hanno spesso avuto una parte rilevante lettere ritagliate e incollate insieme in modo da formare delle frasi. È stato così sin dall’inizio con “The Alphabet” – suo primo cortometraggio – e successivamente anche in “Twin Peaks”, con le lettere che Bob collocava sotto le unghie della sua vittima. Per Lynch le parole emozionano come se fossero delle forme: mutano a seconda di come si percepisce ciò che avviene nel quadro e, a volte, ne diventano il titolo stesso. In sé, una parola è una struttura. “The Alphabet” rappresenta un modo per esprimere le frustrazioni che derivano dal bisogno di verbalità, il corto ruota intorno alle pene di un individuo dotato di una natura non verbale: è forse per questo che, nei suoi film successivi, Lynch focalizzerà tanto strettamente la sua attenzione sul linguaggio, così come sulle specifiche e estremamente eccentriche modalità attraverso le quali i personaggi manifestano se stessi. “Una notte la nipote di mia moglie Peggy fece un brutto sogno, durante il quale pronunciava l’alfabeto in maniera “tormentosa”. Fu più o meno questo che mise in moto tutto. Il resto veniva soltanto dal subconscio”, ha detto Lynch spiegando da dove fosse scaturita l’idea per la realizzazione del corto. “The Alphabet” è un “minuscolo” incubo, imperniato sulla paura connessa all’apprendimento. 

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2: “Occupations”, Lars Von Trier 

Sette anni dopo essere stato definito “persona non gradita” a Cannes a causa delle sue dichiarazioni di simpatia per Adolf Hitler durante la conferenza stampa di “Melancholia”, Lars Von Trier è tornato sulla Croisette – nel 2018 – con “The House that Jack Built”, film ultraviolento con Matt Dillon. Le due ore e mezza sono trascorse tra urla di disgusto e di orrore per le immagini particolarmente scioccanti; alcuni spettatori hanno chiuso gli occhi e, a un certo punto, hanno anche abbandonato la sala. Questa premessa è essenziale per comprendere “Occupations”, che vede protagonista il cinema e – proprio – Cannes. Lars Von Trier ricopre il ruolo di uno spettatore costantemente disturbato da un vicino di posto, durante la visione del film “Mandarlay”, da lui stesso diretto. Quale potrebbe essere la sua reazione? Trattandosi di un personaggio che non è definibile semplicemente come regista, ma come “fenomeno artistico e di massa”, la sua risposta non potrebbe che essere la violenza estrema. Ma non solo: Lars Von Trier si compiace del suo sadismo, “prendendo in giro” lo spettatore e – persino – ridendo. Una volta “risolto” il problema del vicino di posto disturbatore, torna piacevolmente a godere del suo spettacolo. Quella violenza per lui è e resterà sempre poesia: qualsiasi cosa riguardi Lars Von Trier è scomoda, inaccettabile e provocatoria. 

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3: “Save Kids Lives”, Luc Besson 

La FIA, organo di governo del Motorsport, e Luc Besson hanno unito le forze per realizzare un corto che promuovesse la sicurezza stradale dei bambini in tutto il mondo. L’obiettivo è rendere consapevoli (bambini e adulti) della portata di questa emergenza che, secondo i dati della World Health Organisation, coinvolge cinquecento bambini al giorno in tutto il mondo. Il corto è girato tra una località del Sud Africa e Parigi: nel primo caso la causa degli incidenti è la mancanza delle infrastrutture, nel secondo il traffico intenso. In che modo si può reagire alla visione di questo corto? Con coscienza, innanzitutto. Non banalizzando il problema, soffermandosi a ragionare su come i mondi siano diversi, ma i pericoli simili. La FIA, inoltre, ha lanciato l’invito a firmare la Child Declaration, una carta di intenti che contiene numerose proposte di iniziativa per incrementare la sicurezza stradale. 

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4: “Next Floor”, Denis Villeneuve

Quella di Villeneuve è un’accusa al consumismo: il suo corto è una grottesca rappresentazione dell’opulenza e del totale disinteresse di uomini pronti solo ad arraffare più cose possibili. “Next floor” si svolge intorno ad una tavola imbandita. I commensali sono vestiti in abiti lussuosi (ma impolverati) e si riempiono la bocca avidamente e rapidamente con quanto più cibo possibile. I rumori sono assordanti, così come la violenza di alcune scene. Le persone mangiano senza neppure deglutire, scambiandosi solo qualche cenno di approvazione; si cibano di qualsiasi animale e, dopo ogni portata, un esercito di camerieri porta un altro vassoio da cui attingere. Il pavimento comincia a precipitare e i commensali finiscono tutti al piano inferiore: la storia ricomincia da capo come se nulla fosse accaduto. La voracità rappresentata da Villeneuve spaventa e disturba; ed è stata, forse, proprio questa “grande abbuffata verso l’abisso” ad ispirare l’horror distopico “Il buco”, emblematica rappresentazione della filosofia di Hobbes “Homo homini lupus”: un’opera in cui la lotta di classe viene analizzata attraverso il sistema della distribuzione del cibo. 

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5: “Détour”, Michel Gondry 

Undici minuti di poesia: “Détour”, girato interamente con un IPhone, racconta la storia di una bambina e del suo triciclo rosa che, dopo essere stato agganciato alla macchina, “scappa” e intraprende un proprio viaggio personale. Acquisisce, anzi, addirittura una vita propria. Compie avventure, conosce persone, si trova costretto ad affrontare le difficoltà tipiche non solo di un viaggio, ma della vita. Lo sguardo infantile sognante accompagna la visione di un “piccolo” esperimento introspettivo: un’avventura appassionante che insegna a vivere con creatività e a concedersi quella tenerezza di cui tutti avremmo bisogno. 

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6: “The Big Shake”, Martin Scorsese

Quando vediamo un uomo radersi pensiamo – comunemente – a uno degli aspetti della quotidianità più ricorrenti e, soprattutto, più banali che ci siano. Come ci si potrebbe appassionare di fronte ad un’azione del genere? Cosa dovrebbe mai suscitare interesse? È semplicemente un’abitudine, un gesto di pulizia, per certi versi anche un rito di passaggio all’età adulta. Scorsese ribalta la concezione canonica di questo rituale concentrandosi sulla sua pericolosità: improvvisamente destabilizza lo spettatore distruggendo la sua serenità e imponendosi con una crudeltà “insensata”. Di fronte a quella violenza però, il protagonista non sembra sconvolgersi: la naturalezza con la quale continua a radersi, nonostante in principio sembrava addirittura che non ne avesse bisogno, disorienta ancora di più e suggerisce una riflessione sul masochismo. Scorsese però, si riferisce ad uno specifico tipo di masochismo: quello della guerra. Il suo corto, infatti, nasce dall’idea di voler raccontare la criticità della guerra del Vietnam (un riferimento reso esplicito dalla scritta “Viet 67” posta al termine del corto). In quei pochi minuti disturbanti, il regista insinua dubbi sulle conseguenze di azioni apparentemente banali; a scuotere non è tanto la natura splatter del corto, quanto piuttosto l’ipocrisia di uno stile di vita perfetto, dove tutto appare luminoso e sereno. 

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7: “Doodlebug”, Christopher Nolan 

Tre minuti che racchiudono la cifra stilistica di Nolan. La storia è (fin troppo) semplice: un uomo cerca di dare la caccia ad un insetto nel suo squallido appartamento. La larva in questione, però, non è altro che la miniatura del protagonista che compie i suoi stessi movimenti. In “Doodlebug” è evidente la volontà di Nolan di soffermarsi sul concetto di tempo, sulle mutevoli esperienze della memoria, sull’identità, sui deliri e sulle allucinazioni. Caratteristiche che saranno sviluppate in tutte le sue opere, a cominciare con “The Following”, passando per “Memento”, “Insomnia”, “The Prestige”, “Inception”, e arrivando a “Tenet”. “Doodlebug” rimanda anche, poi, anche a “Pi greco – Il teorema del delirio” di Darren Aronofsky: un viaggio nelle ossessioni di una mente disturbata; un’opera di pura irrazionalità da vivere intensamente. 

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8: “I’m here”, Spike Jonze 

Il corto di Spike Jonze è una disamina sull’empatia. I protagonisti sono robot che cercano di vivere a loro agio nel mondo ma vengono continuamente derisi e maltrattati. Sono vittime: si sentono inadatti, profondamente estranei al mondo circostante. Eppure vivono, pensano, sognano; e provano anche a capirsi e ad analizzarsi. È attraverso l’empatia che si comprende il dolore. “I’m here” vuol dire “sono con te”, ma non solo nel senso di essere fisicamente nello stesso luogo, ma “dentro”. “Sono dentro di te”, come a dire “soffro con te, condivido il tuo dolore”. Ma come potrebbe un robot comprendere tutto questo? Il loro modo di provare emozioni è un illogico e poetico atto rivoluzionario. E Spike Jonze ha poi dimostrato brillantemente la sua capacità di sviscerare questo tipo di sensazioni apparentemente irrazionali: in “Her”, infatti, ha raccontato una storia d’amore molto forte ed intenso, quella tra un uomo e il suo computer dotato di intelligenza artificiale. Un legame sincero che mette in luce le fragilità di ognuno di noi e indaga la natura e i rischi dei rapporti umani. Allora, diventa “necessario” credere nella storia d’amore tra un uomo e il suo computer, così come nel rapporto tra due robot che cercano di “ricostruirsi”. Purtroppo, però, non tutti i pezzi possono essere riassemblati.