“COSMOS”: L’ORGANIZZAZIONE IRRAZIONALE DEL MONDO DI ŻUŁAWSKI

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di Mariantonietta Losanno

Quanti segni irrazionali si possono scorgere nell’ordine naturale delle cose? E, soprattutto, quale significato attribuiamo a questi “segni”? “Cosmos” è un’opera intrisa di significato e al tempo stesso vacua, filtrata dallo sguardo di un regista “crudele” come Żuławski. 

Quello di Żuławski è un cinema “sofferto”, che tende alla follia, costantemente in bilico sull’orlo di un precipizio: l’importanza risiede nell’“ammirare”, non nel possedere. Per assurdo, “L’importante è amare” persino nella distruzione, tra atmosfere oniriche, amplessi surreali, censure e violenze; concependo l’amore come espressione di spudoratezza o di lucido cinismo. “Cosmos” è un enigma, un’avventura “strana” – come, d’altronde, l’intera filmografia del regista polacco – in cui, partendo da una realtà in apparenza molto normale, si osserva la cripticità di quei “segni” che distruggono l’ordine naturale delle cose. 

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Due ragazzi fuggono dai loro insuccessi personali per rifugiarsi in una piccola pensione familiare in cui si verificano situazioni inquietanti e si perde ogni lucidità (e verosimiglianza narrativa): una trama apparentemente lineare diventa un teatro dell’assurdo popolato da personaggi grotteschi, epilettici e deformi, da un reticolo di citazioni che vanno da Pasolini a Tolstoj e da Bresson a Sartre, e da quell’atmosfera conturbante che caratterizza tutto il cinema di Żuławski. I due assistono assistono a strani eventi: vedono un passerotto impiccato nel bosco, rastrelli che indicano percorsi geometrici irrazionali, macchie sui muri; in più, è anche la famiglia che li ospita a mostrare peculiarità come atteggiamenti o impulsi ossessivo-compulsivi, isterismi e bipolarità. Osservando convenzionalmente o razionalmente gli eventi, è evidente sin da subito come siano in antitesi tra loro; ma, ponendosi come “pensatori selvaggi” (così come viene definito Pasolini in una delle battute del film), si arriva al “cuore” dell’opera, cioè la necessità di “riproduzione” e non di “rappresentazione” di qualcosa. Perché, se la rappresentazione presuppone l’osservazione di processi o aspetti della realtà con una possibile attribuzione di senso, la riproduzione è “solo” la presentazione di qualcosa. “Cosmos” si presenta, allora, come un trattato filosofico che non vuole fornire alcuna risposta sulla comprensione della realtà. Vengono forniti degli “spunti”, inseriti tra riferimenti alla “Divina Commedia” e rimandi al cinema surrealista di Buñuel (per la struttura di alcune scene di pranzi e cene), ma la “forza” del film risiede sicuramente nell’inconscio.  

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“Cosmos” è un’opera onnicomprensiva, che conduce ad un intellettualismo fine a se stesso e che si compiace: è un trattato “perfettamente inquietante” sulla incapacità di conoscere e decifrare il mondo; confonde ed è confuso, è ricco di significati e al tempo stesso vuoto. E se Żuławski avesse architettato tutto? Se avesse “costruito” quei segni? Ogni soluzione narrativa ne contiene infinite altre possibili. Oppure nessuna. Se così fosse, si suggerirebbe allo spettatore l’idea che gran parte della realtà potrebbe anche non avere alcun senso e potrebbe non essere nata da nessun ragionamento, persino l’arte. O, forse, Żuławski ce l’ha con l’Uomo, responsabile della costruzione di convinzioni che regolano il mondo; perché, è l’Uomo ad attribuire significato alle cose che di per sé non ne avrebbero. Come potremmo, però, vivere se non venisse dato un senso a tutto ciò che ci circonda? Non potremmo conoscere noi stessi, né evolverci. È più plausibile che “Cosmos” voglia imporsi come film-esperienza “intraducibile” e discorso filosofico – che viene trasposto anche all’arte – che vuole fare sentire lo spettatore “vuoto”, cioè perso e smarrito, e “pieno”, cioè consapevole e sicuro di sé.