L’ARTE DEL REALE

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   –   di Adriana Castiello   – 

matilda L’ARTE DEL REALEL’arte è la contraddizione tra l’istantaneo fluire dell’armonia e il perpetuo scontrarsi dei pensieri. La contraddizione stessa è un’arte, una dama velata, creata e manovrata da altri artisti affinché i decisi contorni della verità sospirino beati nella danza con la relativa e confusa immagine di essa. L’arte siamo noi e noi siamo artisti, pennello con cui l’arte si esprime. L’arte è vita e la vita in essa si guarda e si riscopre: uno specchio in cui il riflesso sorride baldanzoso tra lacrime sconfitte per il labirinto di cui sarà per sempre libero prigioniero. L’arte è quel labirinto, creatura dalle cui pareti vibra l’ossigeno per una lotta eterna tra giudizi che, incontrandosi e scontrandosi, non pongono mai fine al loro amore. L’arte è il particolare labirinto della verità: un’entrata, più uscite, dal numero tanto elevato da impedire l’uscita stessa, consentendo l’accesso ad un ulteriore inespugnabile labirinto in cui la bellezza del sole che riposa tra le onde sveglia la tempesta di domande e il naufragio di risposte di un assettato pescatore. Andiamo a caccia di idee che coltivino i fiori della nostra pace, cerchiamo l’acqua nel deserto o il deserto in un’oasi, ci cibiamo soddisfatti dei figli della siccità ma siamo i padri che volteggiano al richiamo della pioggia. Siamo insaziabili. Nutriti dalla realtà e denutriti dall’idea di essa. L’arte, per l’istante della sua nascita, ci sfama dei nostri vizi e bisogni. Un istante, che ha il sapore dell’infinito. L’arte nasce da se stessa in un ciclo continuo la cui morte non avrà mai luogo nel cuore dell’artista che di esso vive e nel cuore dello spettatore che grazie ad esso sopravvive. Non è tuttavia ognuno di noi artista del teatro a cui assiste? Il mio teatro è il tuo teatro, se hai l’anima fertile a quel germoglio immortale. La morte ci cattura, ne discutiamo, la temiamo, la rispettiamo, la nascondiamo, la odiamo: il fascino della distruzione dietro la speranza di una costruzione lontana. Tanto spessa quanto sottile la linea tra la l’inizio e la fine, forse amanti segreti che si cercano tra le spire dell’inferno, condannati per un crimine del quale mai si riterranno colpevoli. Sottovalutiamo la nascita: il tempo tace nell’assordante silenzio in cui ansimanti corridori sono persi nell’immobile contraddizione di un’esistenza che è ovunque e da nessuna parte. Solo l’arte, consente l’accesso a questa maratona, il cui unico premio è sentirsi abbastanza smarriti da potersi ritrovare. Tutto ha l’aria di esistere e non c’è niente che esista, cos’è dunque reale?  Si propaga in me l’eco decisa dell’intensità del messaggio che, levandosi dal buio, ha colorato la mente di una nuova luce: “Il sogno è reale, tutto il resto è follia”. Queste, le ultime parole frutto della penna della giornalista e scrittrice Francesca Nardi, la cui sostanza è giunta alla forma grazie all’impeccabile interpretazione condotta dalla giovane casertana Angelica Greco, nelle vesti della contessa Matilda, l’angelo dalle parole ribelli, fruite nel corso di un colloquio con Gabriele Formato, giornalista fedele ai nostri tempi che si scontra con la contraddizione dell’arte e dunque della verità. Le parole ridondanti dell’enfasi del sogno o della follia sono state lenite dalla pacata presenza della musica di Almerigo Pota, discreto velo dei silenzi ed opportuno compagno delle riflessioni ad esso associate. Il tassello di vita da qualche anno sottratto al puzzle della società ha detenuto e sempre deterrà il podio come architetto della mappa di codificazione dell’animo e delle sue concrete espressioni, che meritano di nascere su un terreno che solo la culturà può rendere fecondo. Il Teatro Comunale di Caserta ha consentito la messa in atto della lotta all’aridità di un mondo di cui, senza conoscenza, siamo solo prigionieri: di fronte all’arte, dentro l’arte, siamo arte, siamo liberi. Liberi di pensare, contraddire, smentire, fare e disfare, finalmente consapevoli che la realtà non è poi così reale, noi stessi ne siamo l’inevitabile filtro, ingegneri di persistenti illusioni, in cerca di un ossigeno che non ci soffochi nella polvere del costruito. Le parole creano la realtà, la trasformano, la annullano in un irreale in cui possiamo considerarci sani, dove l’universo è mera allucinazione delle nostre speranze. Si regge tutto su una parola. Tutto può crollare per una sola parola ed è giusto che crolli: il muro dei vincitori che fanno la storia, il muro della storia stessa, deve crollare. Una ribellione all’ordinaria verità che ci incatena verso l’estasi di ciò che è uno e centomila, forse essa stessa follia, forse sogno di non esserlo. Matilda è una piccola grande voce che attraversa il tempo, ridendo con dolore nella rabbia di un presente sostenuto da un passato forse inesistente, nella prepotenza che la strada solcata e da solcare sia una sola. La società e le false prescrizioni ci alienano da noi stessi, ogni categoria umana e di pensiero si schematizza nei paradigmi della mandria che indossa maschere per la codarda e conveniente compiacenza di un’armonia effimera, ma semplice. Se hai il coraggio, nulla è semplice ma se hai il coraggio, tutto è sano e tu sei folle. Chi ha il coraggio sa che ad essere folle è la realtà che stabilisce confini che solo chi è sano può tracciare. Che ognuno di noi sia Matilda: andiamo in esilio nell’infinito ventaglio di possibilità e solo così potremo tornare a casa. Matilda, come Steve Jobs, ci invita ad essere affamati, ad essere folli ed è nostro dovere partecipare a questa festa, dove il coraggio della conoscenza non deve invecchiare mai.