“LA VITA È UN RACCOLTO”: COME TRATTENERE LE COSE CHE PASSANO

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di Mariantonietta Losanno

Agnès Varda ci conduce in un viaggio (sfidando, con estrema naturalezza, il confine tra fiction e documentario) in Francia, tra spigolatori e spigolatrici alla ricerca di cibo, cianfrusaglie e oggetti buttati. Ci si ritrova, quindi, ad avere a che fare con tutto quello che altre persone hanno eliminato. La regista stessa, “raccogliendo” le storie altrui è a sua volta una spigolatrice. 

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Catturare lo splendore della verità: niente è banale se viene filmato con amore ed empatia. Varda mette le persone al centro delle sue opere e si pone una serie di interrogativi. Il suo intento principale è l’osservazione: stando a contatto, per esempio, con “l’uomo dai grandi stivali” (che ha un lavoro, uno stipendio e persino la previdenza sociale), si domanda perché sente la necessità di recuperare il suo cibo dalla spazzatura, e prova a spiegarsi il motivo di così tanta leggerezza nei confronti delle cose. Non si riconduce tutto ad una questione economica: Varda si relaziona a persone che non hanno bisogno di “vivere di avanzi”, ma che scelgono comunque di farlo. Con la sua curiosità, il suo stile “anarchico” da vera “antidiva” della Nouvelle Vague, si chiede se l’accumulo di cose scaturisca da un bisogno di difesa. Per proteggersi dal “vuoto”, si potrebbe, cioè, agire accumulando: trovandosi, quindi, in uno spazio “pieno” di cose si potrebbe percepire in modo differente anche la solitudine, il dolore, la malinconia. “La vita è un raccolto” pone lo spettatore all’interno dei significati delle parole: “spigolare” vuol dire raccogliere, ma anche ridare vita ad un oggetto in disuso, apprezzare il valore di una “cosa” che per altri ha perso di significato. Vuol dire, allora, anche “trasformare”, riciclare, ridurre gli sprechi. E, ancora, accumulare nevroticamente, dimostrando di non essere capaci di liberarsi delle cose. 

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Potrebbe nascere, dunque, una riflessione su come la “spigolatura” possa essere un modo per trattenere le cose che passano. Per aggrapparsi agli oggetti per paura di lasciare andare o, al contrario, perché si percepisce di avere la forza necessaria per mantenerle. In fondo, la vita è un raccolto/racconto: è un insieme di esperienze vissute o che abbiamo sentito da altri e da cui traiamo spunto, un “ammasso di cose” a cui, poi, siamo noi a dare un ordine e un senso, facendoci aiutare dall’arte. Per tutti gli avanzi che rischiano di andare persi, di diventare oggetto di noncuranza o disattenzione, c’è uno sguardo che scava, “spigola”, cerca frammenti di reale che spesso sfuggono. “C’è così tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta”, ha detto Kevin Spacey in “American Beauty”, in una scena in cui si vede la “bellezza” di una busta di plastica mossa dal vento. È possibile, allora, che in quella busta di plastica, così come nei camion che passano in autostrada e che Varda cerca di “catturare tra le mani”, ci sia della bellezza. Nel movimento che creano, nell’ispirazione che suggeriscono, nei colori che trasmettono creatività. Così come, ne “Il verde prato dell’amore” (il cui titolo originale è “Le Bonheur”) era, invece, l’idea di felicità ad essere distrutta, nonostante fosse suggerita da ogni minimo dettaglio dell’opera. 

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Agnès Varda rompe gli schemi, annullando la distanza tra l’oggetto osservato e il soggetto che guarda; la sua voce si sente fuori campo o si vede lei stessa in scena che parla, intervista e commenta. Se ci sono cose che passano, però, ci sono anche altre che restano. E, soprattutto, non tutto si può trattenere, nonostante si provi a stringerlo forte tra le mani. Ci sono cose che sfuggono, che sono semplicemente destinate ad essere lasciate andare. Quando impariamo, allora, a lasciar fluire l’energia senza opporre resistenza, tutto, improvvisamente, diventa più accettabile e comprensibile.