“LASCIARSI UN GIORNO A ROMA”: LASCIARSI SENZA DISTRUGGERSI, LASCIARSI PER NON DISTRUGGERSI

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  di Mariantonietta Losanno 

Fine: ciò a cui si mira, il “fine principale”, l’obiettivo, l’intento; oppure, la conclusione di qualcosa. Se è vero che per ogni parola si possono attribuire più significati – che si possono contraddire – allora, anche la “banalità” può essere analizzata secondo prospettive differenti. Cos’è, realmente, la banalità? È possibile che lo sia una commedia sentimentale che cade in una serie di prevedibili cliché? Ma, andando più a fondo, se il “fine principale” della commedia è raccontare “Le vite degli altri” – come nella dolorosa opera di Florian Henckel von Donnersmarck – dovrebbero essere proprio le vite degli altri ad essere banali? Con quale diritto si definiscono tali? È più probabile, invece, che esista un cinema che parla di noi stessi, delle nostre vite, dei nostri difetti. E che ci siano personaggi che non devono, per forza, vestire i panni dei “Supereroi” (come quelli del nuovo film di Paolo Genovese), ma persone comuni, che fronteggiano le difficoltà della vita di tutti i giorni. 

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La vita quotidiana fatta di paure ed espedienti è restituita da una regia precisa ed onesta che racconta di personaggi umani e credibili decisi a sopravvivere, a compromettersi e a resistere. 

La pellicola inizia dalla fine: Zoe e Tommaso si lasciano dopo dieci anni. Lei è manager di una società di videogiochi, lui uno scrittore che non riesce a imporre il suo finale al suo libro e, per arrotondare, di nascosto dalla compagna, si occupa della posta del cuore di un magazine femminile con lo pseudonimo di Gabriel García Màrquez. Tra le tante lettere che riceve, un giorno, gli arriva proprio quella di Zoe, che gli confessa di non essere più sicura dei propri sentimenti. Accanto a questa storia, se ne sviluppa un’altra, quella di Umberto e Elena; lei presa da tantissimi impegni istituzionali come sindaco di Roma, lui professore frustrato che non riesce più a comunicare con i suoi studenti né tantomeno con sua moglie. 

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La canzone a cui si rifà il titolo è scritta da Niccolò Fabi ed è stata presentata al Festival di Sanremo nel 1998. Racconta di una storia finita, dalla parte “forte” di chi lascia; la melodia, calda e coinvolgente, accompagna in un crescendo di note il testo che sembra voler alludere ad una situazione di dipendenza affettiva, in cui l’altra persona non riesce ad accettare la fine di una relazione (qual è il grado di dolore/che riesci a sopportare/prima di fermare l’esecuzione/e chiedere soccorso a me/che non ti do/un motivo ancora per restare/nella storia di una storia che non c’è). “Una canzone triste arriva capovolta. Spesso l’appassionato, dall’altra parte, è lì che non sembra aspettare altro se non qualcuno che “entri dentro di lui”, ne capisca le sofferenze, dia un senso alla solitudine. La “sad song” è un rifugio perfetto se a scriverla e a cantarla è il tuo musicista del cuore. Ti fidi, ti senti accolto. Credo che niente come una canzone malinconica trasmetta il senso di appartenenza. È catartica. Ma non per tutti è così: c’è pure chi scappa”, ha detto in un’intervista Niccolò Fabi. Ed Edoardo Leo non vuole scappare, non vuole un lieto fine; forse, per difesa, si rifugia in espedienti narrativi volutamente “scontati”, ma riesce a parlare comunque della fine. Di quella fine che fa paura a tutti, e che ci fa preferire rimanere in una situazione di “familiarità” apparente. Ci si illude, pensando ad un tempo in cui il proprio partner era realmente “un’altra persona” rispetto a “la persona” che è oggi. Il punto, però, è che esiste una sola versione di una persona e non si può amare quella che è stata, ma solo quella che è. Ed esiste anche un momento giusto per fermarsi prima di distruggersi. Sta tutto nel riconoscere quei meccanismi di auto inganno (gli stessi messi in atto da Tommaso che, leggendo le lettere di Zoe, crede di poterla “riconquistare” facendo quello che un tempo la rendeva (forse) felice), che si concretizzano nel senso del dovere, nella paura di restare soli, nel valore del percorso comune e, naturalmente, nel senso di colpa. 

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Dirsi addio è sano. Sarà retorica, sarà banalità, ma resta vero. Lo hanno saputo raccontare Robert Benton in “Kramer contro Kramer”, Noah Baumbach in “Storia di un matrimonio” e Sam Levinson in “Malcolm & Marie”. Hanno saputo raccontare il difficile rapporto con i figli (che spesso tengono legate le persone slegandole, però, dall’amore di coppia), con le scelte lavorative che possono allontanare, con le discussioni in cui nessuno dei due è disposto a scendere a compromessi. Edoardo Leo, nel suo piccolo, realizza un film “rivoluzionario”, che abbraccia la “musica lagnosa” e gioca con i cliché cinematografici. Che sceglie una banalità “illuminata” che nasconde un dolore sincero. È un film che ha bisogno di “aria” e che rifiuta la claustrofobia di Baumbach e di Levinson, che ha bisogno di ispirazione che trova in De Gregori e in una Roma “vuota”, inedita, ma viva. 

Lasciarsi: separarsi da qualcuno o qualcosa. Oppure, invito a decidere: prendere o lasciare. È una questione di scelta. “Fai finta che è normale non riuscire a stare più con me”, canta Niccolò Fabi. Perché ostinarsi a non voler guardare le cose con onestà? Perché pensare egoisticamente alla propria difficoltà di stare soli (con se stessi, non in solitudine), al posto di accettare realmente i bisogni del proprio compagno? Tanti risponderebbero semplicemente dicendo che non è facile rinunciare alle abitudini in comune, accettare il cambiamento; è preferibile non ammettere la verità, sopratutto a se stessi. È troppo “comodo”, però, pensare che chi si ostina a non lasciare lo faccia perché crede ancora in quell’amore: non ammettere che i sentimenti cambino vuol dire, al contrario, non amare più il proprio compagno. Non comprendere, cioè, i suoi (nuovi) bisogni, i suoi (nuovi) desideri. Non c’è un manuale. Non ci sono consigli, rimedi, scorciatoie. Non basta (ri)provarci per stare insieme. “Lasciarsi un giorno a Roma” si presenta come una riflessione “non giudicante” su quanto ci si senta fragili e vulnerabili di fronte alla fine. Il vero traguardo, forse, è solo la coerenza. Imparare a separarsi dalle “cose” senza perdere dignità ma, anzi, acquisendone di più; custodire il proprio dolore, non fuggire, non schivarlo.