“AMERICA LATINA”: UNA REGIA VISCERALE, AMORALE E AVULSA DA SCHEMI RIPETIBILI

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di Mariantonietta Losanno 

I fratelli D’Innocenzo si spingono oltre, coniugando realismo, intimismo e ossessione in una (ennesima) “favola(ccia)” nera. Non era scontato, non era facile; ci voleva coraggio, un gusto gotico/horror e anche un’innocenza perversa e tormentata. Osano anche nel portare avanti un’idea (coerente) di filmografia che basa la sua forza sulla capacità di lasciarsi sorprendere dalla semplicità di una storia contorta raccontata senza riserve, senza sconti e senza intellettualismi. Sviluppata con sensibilità e dissennatezza. Ne “La terra dell’abbastanza” i fratelli D’Innocenzo esprimevano la loro idea di “abbastanza” che, in realtà, non basta mai e che non trova mai una definizione esaustiva; raccontavano di un’assuefazione al Male (distaccandosi dalla sovrabbondanza di film “malviventi”) “ritualizzata” in stile “Educazione siberiana” che non lascia spazio alla coscienza o ai sentimenti. In “Favolacce” “subivano” dolori, esistenze prive di aspirazione che provocano rabbia e indignazione, prigioni familiari, indifferenza che annienta, in un racconto senza scampo, in cui la mediocrità resta insanabile. “America Latina” segue una linea già (intelligentemente) tracciata, insiste sul tema della coscienza e conferma un gusto sadico e amorale. 

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Massimo Sisti è un dentista pacato, con il vizio (appena accennato) dell’alcol che ama intrattenersi con il suo amico Simone e trascorrere il suo tempo con le figlie e la moglie in una casa che sembra un “non-luogo” sospeso nello spazio e nel tempo. La sua esistenza, dedicata all’abnegazione e alla correttezza, viene sconvolta da una scoperta che si impossessa della sua vita: un giorno, scendendo nello scantinato per compiere una qualunque ed inutile faccenda domestica, si imbatte nell’“assurdo”.

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“America Latina” è un film che vive di “riflessi”. È il riflesso (esasperato) di una vita di costrizioni e repressioni (che ricorda l’esordio alla regia di Sofia Coppola, “Il giardino delle vergini suicide”), di un lavoro di regia azzardata che si svela definitivamente, della volontà di voler stabilire con chiarezza la natura dell’inquietudine. Poi, c’è il riflesso di Massimo: si vede riflesso nel vetro di una finestra, attraverso una scrivania, in un pianoforte appena lucidato, o in qualsiasi altro oggetto capace di riprodurre l’immagine di se stessi, come l’acqua. Qualsiasi cosa ci sia lì, in fondo o in superficie, i fratelli D’Innocenzo vogliono scoprirlo. E per farlo si espongono, osano perfino sbagliare; abbracciano un’idea di cinema che parla una lingua forte ed ossessiva, che si interroga e si mette in discussione. “America Latina” – così come le due opere precedenti – è un’opera che si concentra sul senso di appartenenza, sulla “dolcezza” e tutte le sue estreme conseguenze, sull’oscurità, sulla paranoia, sull’orrore. Fabio e Damiano D’Innocenzo amano il buio e lo attraversano per arrivare a capire se è possibile che ci sia una luce. “America Latina” non lascia respiro, vuole sviscerare, approfondire, domandarsi (senza necessariamente fornire, poi, risposte), con il rischio – forse – di raccontare “niente” mentre si racconta “tutto”. 

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L’ultima pellicola dei D’Innocenzo concentra l’indagine su un solo personaggio (al contrario della coralità che aveva caratterizzato “Favolacce”), che riempie lo schermo – quasi lo divora – con la sua presenza. Non si tratta, però, dell’ennesima riflessione sul tema del doppio (di cui è stato parlato – solo per citarne alcuni – da Buñuel, Hitchcock, Kubrick, Polański, Cronenberg, Bergman, Lynch, Fincher, Villeneuve), ma di uno strumento narrativo funzionale ad insinuare un dubbio (volutamente irrisolto), capace di fare “esplodere” tutto quello che c’è “sotto” il mistero: amore, follia, coscienza. I D’Innocenzo, allora, prediligono un’idea di cinema privo di coordinate che, con l’approssimarsi della risoluzione della storia, si fa ancora più confuso.