“MARILYN HA GLI OCCHI NERI”: ASSORBIRE O EVITARE IL DOLORE ALTRUI?

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di Mariantonietta Losanno 

“Se uno sta male la gente ha paura”, recita Miriam Leone in una delle scene di “Marilyn ha gli occhi neri”; un modo semplice (nell’accezione di comprensibile per tutti, così da contrastare anche l’incomunicabilità dei disturbi psichiatrici) per esprimere una grande verità: la sofferenza degli altri fa paura. Cos’è, però, a spaventare così tanto? Paura di cosa, esattamente? Di affrontare – e attraversare – il dolore altrui non lasciandosi assorbire (o “annientare”) per la troppa empatia o per il troppo egoismo; di essere – in modo più o meno inconscio – “contagiati” dalla sofferenza; di vivere un cambiamento e di vivere – soprattutto – le conseguenze del cambiamento. 

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Riflettere sulle diversità: un tema (così delicato) come la Follia è stato affrontato al cinema con approcci sempre diversi, affrontando l’istituzione psichiatrica in sé (“Il corridoio della paura”, “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, “Ragazze interrotte”), i deliri della mente (“Antichrist”, “Shutter Island”, “Repulsion”, “Shining”, “Split”). Il cinema italiano ha realizzato opere come “Prendimi l’anima”, “La pazza gioia”, “In viaggio con Adele”, “Si può fare”; “Marilyn ha gli occhi neri” è una “somma di piccole cose” che può dare – a seconda del proprio punto di vista – un grande risultato o un risultato nullo. 

Diego (Stefano Accorsi) e Clara (Miriam Leone) – due “ragazzi interrotti” – si conoscono ad un centro diurno in cui hanno l’obbligo di fare terapia di gruppo. La riabilitazione forzata sotto la guida di uno psichiatra li coinvolge, insieme ad altre persone “problematiche”, in un esperimento inaspettato: gestire un ristorante per le persone del quartiere. L’intento è quello di abituarsi a relazionarsi con il mondo esterno, restando però in un ambiente autogestito e, quindi, familiare. Clara “si lancia” in finte pubblicità, sponsorizzazioni, fotografie dei piatti “forti” e (anche) in finte autorizzazioni; la situazione, data la difficoltà di nascondere i sintomi delle varie patologie, sfugge di mano. Il film, riprendendo toni e influenze de “Il lato positivo”, trae spunto da una storia vera, quella di un ragazzo londinese che, dopo aver perso il lavoro, decise di “prendersi gioco” del mondo che lo aveva rifiutato creando un locale inesistente e diventando il primo ristorante di Londra su Tripadvisor, scalando bene 14mila posizioni. Se, però, l’idea della creazione di un ristorante inesistente su internet può sembrare (persino) plausibile, quelle di creare foto di piatti utilizzando schiuma da barba, piedi (?) o altri oggetti somiglianti a eventuali cibi e – ancora di più – quella di metterlo, poi, realmente in piedi partendo da zero, lo sono molto meno. Ci vuole, allora, molta creatività – o molta follia – per ritenere che sia possibile, ma c’è da riflettere sicuramente su quanto questa storia sia lo specchio di una società che vive di immagini, di fare news, di superficialità e seguito di massa. Cosa resta, allora, nella sostanza? Una piccola – che vuole restare “piccola” – riflessione sul comune bisogno di accettazione. “Pensano di avere ragione solo perché sono di più, quelli normali”, recita una delle frasi più significative del film, in risposta a Jack Nicholson e alla sua “Ma credete veramente di essere pazzi? Davvero? Invece no, voi non siete più pazzi della media delle persone che vanno in giro per la strada, ve lo dico io!”: “Marilyn ha gli occhi neri” non aspira minimamente ad imporsi nel panorama cinematografico (italiano e non) come opera “originale” sul tema, punta, invece, sul mettere in scena il dolore in modo misurato e sull’“incoraggiare” ad “investire” sulle proprie debolezze per farle diventare punti di forza. 

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Simone Godano realizza un’opera “leggera” in un periodo storico in cui le “stranezze” – o le nevrosi di vario genere – sono state accentuate, e ci propone uno sguardo inclusivo che aiuti ad accettarsi, perdonarsi e riconoscersi. “Marilyn ha gli occhi neri” copre uno spettro di “stranezze” che va dalle manie persecutorie, ai disturbi ossessivo compulsivi, alla sindrome di Tourette, soffermandosi anche, però, sulle problematiche legate alla vecchiaia (e al sentirsi soli, smarriti, privi di riferimenti temporali) e all’infanzia (e alla capacità di essere padri nonostante si conviva con le proprie “stranezze”). “Marilyn ha gli occhi neri” si sofferma su quelle rarità da “abbracciare”, quelle che allontanano molte persone ma avvicinano quelle “speciali”. Non era facile scrivere e poi dirigere un film che raccontasse le problematiche psichiche senza scivolare nella retorica o ridicolizzando le problematiche stesse che affliggono chi è affetto da queste patologie; Godano si espone e tenta di strappare un sorriso a chi, invece, vuole distruggere ed essere sempre “la parte peggiore di sé”. Proprio quella parte “peggiore” potrebbe essere il punto da cui partire.