“LA FIERA DELLE ILLUSIONI”: UN LUNA PARK PIENO DI BUGIE E DI (UN PO’ DI) TUTTI NOI

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di Mariantonietta Losanno

Il potere delle illusioni e la forza della manipolazione: Guillermo Del Toro “ipnotizza” il suo pubblico con spettacoli di magia occulta, corpi deformi, mentalisti e ricatti abilmente costruiti. Ci troviamo in un mondo di “freaks”, molto diversi, però, da quelli di Gabriele Mainetti, che rappresentavano una sorta di “eroi popolari”, creature da ammirare e da amare, in cui riconoscersi empatizzando. Quelli di Guillermo Del Toro sono abilissimi truffatori, imbroglioni che affinano i loro colpi con il tempo, sfruttando persone e situazioni. Non sono, quindi, “freaks” intesi come “outsider”, ma personaggi complessi, strateghi “giocatori”; sono “mostri diversi”, più umani nell’aspetto e più disumani nell’agire. 

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Anni Quaranta, Stati Uniti. Tutto ha inizio con un incendio, o forse un delitto. Stan si unisce ad un luna park ambulante, dove impara i trucchi del mestiere – con mezzi brutali – e seduce la “donna elettrica” Molly, affascinata dai suoi molti talenti. Insieme si trasferiscono in città: Stan, avido e spietato, comprende quanto sia “allettante” controllare le menti delle persone, destrutturare le loro paure, possedere i loro dolori “usandoli” per creare uno spettacolo che sbalordisca. Ne diventa dipendente e assuefatto, superando un limite di “mostruosità” approfittando, in particolare, della sofferenza di persone anziane (e quindi, più facili da manipolare) molto ricche; un sadismo che ricorda quello di Rosamund Pike in “I care a lot”, in cui dedicava anima e corpo ad esautorare figli e parenti e approfittare – senza mostrare un minimo cenno di umanità – di inermi vecchietti dichiarati (grazie al suo Potere) incapaci di intendere e di volere. 

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Quello di Guillermo Del Toro è un “gioco” di inganno e autoinganno, in cui ci siamo (anche) tutti noi. Ci sono le bugie, le distorsioni della realtà; le trappole che tendiamo persino a chi amiamo, la corruzione, i sensi di colpa. In quel luna park ci siamo tutti noi: “La fiera delle illusioni” reinventa un mondo e un’estetica (scene, cast, costumi e fotografia impeccabili) per alludere a qualcosa che riguarda tutti noi da vicino. Del Toro indaga la realtà con tutti i mezzi possibili – anche in apparenza in contrasto – soffermandosi a riflettere su quanto l’animo umano possa essere corrotto e salvato, poi, da una carta rovesciata o da un barlume di coscienza. Un bravo mentalista/illusionista/spiritista può raccontare – e raccontarci – tutto quello che vuole o che vogliamo sentire; il regista ci trascina in una dimensione sospesa (che evoca ma non abbraccia completamente la dimensione fantastica) eppure tangibile, in cui è facile diventare vittime e farsi divorare. È probabile, allora, che l’“uomo-bestia” sia anche dentro di noi: per i soldi, per il desiderio di riscattarsi o redimersi, per un’ambizione ostentata, si può essere travolti da una violenza sadica e persino seducente. 

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Le opere di Del Toro sono estremamente stratificate, dense, sovversive. Se, però, ne “La forma dell’acqua” Elisa si innamorava del “suo mostro” in uno spazio senza tempo (che è, appunto, il Cinema), ne “La fiera delle illusioni”, il “mostro” è un anti-eroe dalle mille anime (fin troppo) reale e, di conseguenza, “spaventoso”. Del Toro va oltre Del Toro indagando una materia complessa – in modo, forse, prolisso – fornendo allo spettatore una sua personale visione sulla magia illusoria (del Cinema, come della vita), tralasciando, però, la caratterizzazione dei personaggi di cui non approfondisce in modo esaustivo la psicologia e l’evoluzione. “La fiera delle illusioni”, adattamento cinematografico del romanzo del 1946 “Nightmare Alley” scritto da William Lindsay Gresham (già portato sul grande schermo da Edmund Goulding nel 1947), è una “sfida” tra purezza e corruzione; più si comincia a possedere e più si desidera avere il controllo su ogni cosa, passando persino sopra i propri principi. È facile creare illusioni ed è facile, soprattutto, credere che siano reali; Del Toro ci mostra l’aspetto più brutale del cinismo e del desiderio di credere autoingannandosi.

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Il cinema di Guillermo Del Toro è apparentemente molto semplice: ci sono i buoni e i cattivi, il Bene e il Male. Il suo “realismo fantastico” gli consente di far coesistere insieme il quotidiano con la fiaba, senza perdere mai il contatto con la realtà; il suo cinema replica la realtà, superando il confine banalmente definito “fantasy” e soffermandosi su innocenza e perversione che riescono a compensarsi in un mondo capace di generare mostri privi di artigli, squame o ali. Del Toro mette in scena il delirio di onnipotenza dell’essere umano, quella avidità che (ci) spinge oltre il limite, come se fossimo padroni del mondo. Il Bene e il Male non possono essere punti di vista netti: quello che può sembrare accattivante è al tempo stesso mostruoso e viceversa. Del Toro sceglie di non lavorare più con creature venute dagli abissi, ne “La fiera delle illusioni” (che ci riporta, anche, a “La strada” di Fellini) il mostro è l’essere umano: la pellicola diventa, allora, un manifesto di quell’orrore racchiuso in un uomo “normale”, alla ricerca della fortuna e della gloria, affascinato dal potere della manipolazione e della seduzione.