OSCAR 2022, “DRIVE MY CAR”: TOGLIERE SPESSORE AL DOLORE

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di Mariantonietta Losanno 

Ritornare alla vita a bordo di una Saab rossa: il nuovo film di Hamaguchi (libero adattamento dell’omonimo romanzo di Haruki Murakami pubblicato nella raccolta “Uomini senza donne”) è un’opera “svuotata” di parole e che fornisce un nuovo senso ai silenzi. 

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Oto e Yusuke sono al centro del lungo prologo di “Drive my car”; lui è un attore e regista di teatro che ha una “curiosa” abitudine – ripassare i copioni grazie a un’audiocassetta registrata dalla moglie – lei, a sua volta, ha uno strano dono, raccontare strane storie di passione. Le narrazioni erotiche improvvisate di Oto sono una sorta di “coadiuvante” sessuale, un preludio – o una preparazione – all’amore fisico e Yusuke le ascolta devotamente per riprenderne il filo al mattino. Titoli di testa: la morte di Oto segna l’“inizio” del film. Yusuke accetta di gestire un laboratorio teatrale a Hiroshima, mettendo in scena lo “Zio Vanja” di Čechov; entra in relazione con una ragazza – sua autista – tra confessioni e rielaborazioni dei traumi passati e con l’amante di sua moglie, uno degli interpreti della compagnia. 

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“Drive my car” è un’opera piena e al tempo stesso priva di parole. Ci sono le parole scritte sui copioni, quelle recitate sul palcoscenico, quelle create nei momenti di piacere per trovare ispirazione; e, ancora, quelle usate per ammettere le proprie colpe e redimersi. E poi ci sono le parole non dette: quelle, ad esempio, non proferite dopo aver scoperto un tradimento e che portano, poi, a crearsi nella propria mente l’idea di aver “ucciso”, solo perché è mancato il coraggio di urlare il proprio dolore. Una volta, poi, che si individua una “guida”, dai dolori ci si può anche “riposare”. Perché, in “Drive my car”, è fondamentale il concetto di saper fare da “guida” ad un altro, aiutandolo; Yusuke, infatti, guida la compagnia teatrale e al tempo stesso è guidato dalla sua autista nei suoi viaggi e nel suo percorso di rielaborazione del lutto. Cosa vuol dire, in realtà, “guidare” qualcuno nella vita? La Saab rossa è protagonista indiscussa della pellicola ed è proprio nell’auto che si svolge quel processo di “ricostruzione di sé” che prevede delle fasi specifiche; Yusuke e la sua autista si concedono del tempo per accettare le proprie sofferenze, per ammettere di non aver avuto la forza di confrontarsi con se stessi e poi con gli altri. La macchina, unico luogo “protetto” dove può ricordare Oto, diventa per Yusuke l’occasione per superare i propri limiti, accettando l’invasione dello spazio e della memoria. Dopo i primi momenti in cui sentirà di essere spiato, Yusuke farà i conti con quello che non ha affrontato e che per anni ha avuto il dominio su di lui. 

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Hamaguchi “guida” il suo pubblico in un viaggio che non è per tutti; un viaggio lungo, doloroso e pieno di “sfide”. Un viaggio che porta ad una piena – e catartica – presa di coscienza dei propri traumi, che comporta l’accettazione dell’altro e le “irruzioni” dall’eterno; per certi versi anche un viaggio consolatorio, che trasforma la malinconia cambiandone il linguaggio e la forma. “Drive my car”(che ha quattro candidature agli Oscar 2022), distrugge e poi ricostruisce: apre spazi inviolabili, unisce le vite legate dal dolore e coglie in ogni sguardo la solitudine e il desiderio di “tornare alla vita”. Lo spettatore comprende, allora, come (re)imparare a guardare e ad ascoltare, come fare luce sulla propria “casa crollata” e sepolta dai ricordi, come riconoscere i suoni e i colori e risolvere i propri conflitti interiori. “Drive my car” è un film in cui si intrecciano storie nella Storia, teatro nel cinema, narrazioni nella narrazione. Hamaguchi (vincitore dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino del 2021 per “Il gioco del destino e della fantasia”), si serve dei riferimenti letterari e teatrali per affrontare la perdita, la disabilità, ma anche la passività (che uccide), la paura, la propensione a nascondere. In un viaggio così lungo – che proprio perché interiore non avrebbe potuto essere frenetico – ci sono momenti in cui contano i silenzi: due mani vicine che compiono lo stesso gesto, paesaggi innevati in cui poter rivivere i propri ricordi, primi piani che colgono emozioni e inquadrature di elementi emblematici. 

Se è vero che ogni ferita è sanabile, è anche vero – secondo Hamaguchi – che non la si possa sanare da soli. Accettare di fare entrare qualcuno nel proprio mondo, lasciarsi “guidare”, aprirsi all’altro è l’unico modo per tornare a vivere (“Che fare? Bisogna vivere”, recita un’attrice nello spettacolo). “Drive my car” rappresenta un’idea di cinema completo, intimo e che “sa muoversi”; un esempio di cinema capace di rielaborare i silenzi e svelare i propri segreti per “completare un processo” necessario e salvifico. In tre ore di immersione nel teatro e nella coscienza, ci si rieduca alla vita, ci si slega dall’ossessione di difendere i propri spazi: il luogo di “coesistenza” diventa (anche) quello del perdono, della comunicazione con se stessi, di accettazione di zone d’ombra. 

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“Guidala tu la mia auto”, come a voler dire: entra nel mio privato, nello spazio in cui sono abituato a esercitare la mia memoria, il mio sguardo. “Prendimi, accompagnami, portami a destinazione”, come a voler dire: entra nel mio sguardo, in quello spazio protetto in cui posso mostrarmi fragile, in cui posso ammettere di non riuscire a “guidare da solo”. Parlare, lasciare andare, lanciare “un fiore per volta” per espiare le proprie colpe, riconoscersi, ascoltare: “Drive my car” insegna a guardare attraverso, a guidare e ad accettare l’idea di essere guidati e, quindi, a cambiare “posto nella propria auto”.