OSCAR 2022, “LA PERSONA PEGGIORE DEL MONDO”: LO SGUARDO ANONIMO DI UN CINEMA “IRRISOLTO”

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di Mariantonietta Losanno

Joachim Trier reinventa la commedia romantica non convenzionale (seguendo lo stile di “(500) Days of Summer”) con un’opera divisa in dodici capitoli che “educa ai sentimenti”. Julie è una donna contraddittoria e imprevedibile, alle prese con i problemi della sua generazione e  con quelli relazionali. Non ha ancora trovato il suo “posto nel mondo”; il suo sguardo è confuso e la sua personalità ancora non definita: passa dalla medicina alla fotografia e da una relazione all’altra senza soffermarsi a riflettere su cosa la entusiasmi davvero o cosa la aiuti a crescere. È consapevole solo di voler vivere, agire e cambiare lavoro o taglio di capelli (come Clementine nelle varie fasi in “Eternal Sunshine of the Spotless Mind”); la “smania di vita”, però, la rende anche irrisolta e, in un certo senso, “sprecata”. Non ci sono punti di riferimento, né suoi personali, né tantomeno familiari: le sue due relazioni con Aksel e Eivind, però, la spingono – quasi obbligandola – a mettersi in discussione. 

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Con due nomination come migliore sceneggiatura originale e miglior film internazionale, “La persona peggiore del mondo” è un’opera leggera ma complessa; una riflessione non giudicante sull’incertezza vissuta da tanti giovani (e, quindi, condivisibile) che può diventare, però, auto-sabotazione. Julie è un personaggio interessante: è sfrontata, libera, curiosa. È alla ricerca di se stessa, ma è intenzionata a “cercarsi” facendosi aiutare da un uomo: si barcamena tra le relazioni per disvelare la sua personalità. 

A cosa allude il titolo? A Julie? E “peggiore” a cosa si riferisce? Al suo essere libera, al suo desiderio di scoprire i sentimenti e la vita “educandosi”? Non possiamo essere ancora alle prese con queste concezioni antiquate. Allora, “la persona peggiore del mondo” potrebbe essere Aksel, Eivind, il padre assente di Julie, o (ancora) Julie stessa, intesi come persone che commettono errori, che feriscono gli altri o che, semplicemente, si fanno del male da soli. Persone che assecondano le proprie inclinazioni, che seguono i propri istinti, che danno forma al proprio futuro senza forzare la mano. Persone che prediligono le relazioni “liquide” di Bauman, o che spingono per crearne una più seria senza che ci siano i presupposti validi per farlo. Può essere, ancora, che “la persona peggiore del mondo” sia in ognuno di noi, nelle nostre scelte sbagliate o non prese o nelle relazioni vissute come fuga dal proprio io. 

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Joachim Trier (“Reprise”, “Oslo, 31. august” – che insieme a “La persona peggiore del mondo” formano la “Trilogia di Oslo”, “Segreti di famiglia”, “Thelma”), lascia allo spettatore il diritto di definirsi da solo, facendo lo stesso. “La persona peggiore del mondo” resta, infatti, l’espressione di un cinema “irrisolto”, sempre in cerca di qualcosa di meglio o qualcosa di più. Libero ma contraddittorio: un “ibrido”. Julie resta un personaggio “secondario” della propria vita, che si ostina a domandarsi quando comincia la vita, senza considerare che continuando a fuggire niente potrà mai iniziare davvero. La pellicola di Joachim Trier diventa, allora, esempio di un cinema “completo” ma non “pieno”. Completo perché c’è una storia, ci sono dei personaggi caratterizzati, c’è la scrittura, ci sono delle intenzioni, ma non per questo risulta compiuto. Non è “pieno” di vita così come, in realtà, non è piena di vita neppure Julie, che ama ma non ama, che ha paura ma non ha paura, che tradisce ma non tradisce, che vuole scappare ma vuole anche stabilire radici. Non è una “nuova Amélie”, perché non è altrettanto romantica o sognatrice. 

Una simpatica voce fuori campo accompagna lo spettatore in un viaggio introspettivo che non chiarisce mai a pieno cosa sia realmente “migliore” o “peggiore”.