“IL BAMBINO NASCOSTO”: DUE SOLITUDINI “DIVERSE” NELLA “STESSA” NAPOLI

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di Mariantonietta Losanno 

Una narrazione lenta e solenne – come una sonata per pianoforte – quello di Roberto Andò: “Il bambino nascosto” mostra la “stessa” Napoli senza “sporcarsi le mani” eccessivamente. 

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Gabriele Santoro, maestro di pianoforte, abita nei Quartieri Spagnoli pur provenendo dalla Napoli “bene”. Conduce un’esistenza abitudinaria, fino a quando un bambino non si intrufola nella sua casa: Ciro è il figlio di una famiglia del palazzo in cui abita ed è ricercato dalla camorra per aver scippato la moglie di un boss. Non è ancora un criminale, ma potrebbe diventarlo. Il suo complice è scappato e lui cerca protezione da parte dell’unica persona che accetta “quel mondo” senza giudicarlo. Santoro è lucido (si prende cura della sua lucidità ripetendo poesie a memoria) e consapevole dell’ambiente in cui vive; vive isolato ma non scappa, o meglio, non scappa fino a che non è costretto a farlo. 

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“Tra la legge e l’amore, oggi sceglierei l’amore”, dice il padre al “Maestro” (così viene chiamato nel palazzo); ed è mentre lo accudisce che diventa “padre” di Ciro. Però, non “scopre” l’amore filiale, sembra faccia già parte di lui. Forse non l’amore filiale, ma l’attenzione, l’accudimento, la dolcezza, la capacità di amare senza giudicare: tutte caratteristiche, quindi, tipiche di un genitore. Gabriele non si sforza di capire come interagire con Ciro, è tutto spontaneo e naturale; non si preoccupa di dargli un letto dove dormire, di procurargli dei vestiti, di capire cosa possa interessargli o di lasciarlo solo quando lui non c’è. Non sembra turbato dalla sua presenza, non lo “teme”, non pensa che possa metterlo in pericolo, o meglio, “accetta il pericolo”; accetta, cioè, di vivere tra criminali, se può, addirittura li aiuta. E questo non perché “non abbia paura di nessuno” – come canta Ciro per darsi forza – perché la paura ce l’ha; a volte, trema persino dalla paura. Il punto è che la paura non lo frena: accetta la realtà che lo circonda. Accetta se stesso, accetta il disprezzo di suo fratello, la sua solitudine. E accetta Ciro, anche se non conosce la sua storia. Lo fa restare in casa sua senza esitazione alcuna; Gabriele è un Léon più incosciente, nonostante Mathilda non avesse colpe e Ciro sì. Se, però, nel cult di Luc Besson, Jean Reno imparava – insieme a Natalie Portman – ad accudire qualcuno, Silvio Orlando si muove (seppur inconsapevolmente) sapendo quello che fa. Non solo accetta il crimine, ma addirittura lo contrasta: si oppone a quel sistema che vige da sempre e in cui – si sa – prima o poi si perde. Perché non c’è lotta: c’è solo morte. A prescindere dall’età, dalle circostanze, dalle azioni, dai pentimenti. È un duello impari, in cui, se da una parte c’è l’intenzione di salvare – e salvarsi – la vita, dall’altro c’è solo un meccanico (perché ormai collaudato) e spietato piano di vendetta. 

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Roberto Andò, che ha scritto la sceneggiatura ricavandola dal suo omonimo romanzo, non si spinge fino in fondo, non prova a “combattere” con la filmografia di genere, realizzando un prodotto che non aggiunge nulla di nuovo al quadro di una città più che conosciuta. Dimostra di avere il coraggio di sapere accettare le “zone d’ombra” dei suoi personaggi e di Napoli, non giudicandole, ma nemmeno sviscerandole a fondo. Presentato fuori concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, “Il bambino nascosto” è un film in sospeso, che ritrae Napoli da uno “spioncino”, da un punto di vista “privilegiato”, senza entrarvi dentro realmente. 

Ambientato in un palazzo – come nei “Tre piani” di Eshkol Nevo e Nanni Moretti – la pellicola di Roberto Andò si concede un finale più aperto rispetto al romanzo, ammettendo come plausibile l’ipotesi di un riscatto. Il punto, però, è che l’unica rivalsa possibile si concretizza abbandonando Napoli. Il regista, attraverso questa scelta narrativa, ha dimostrato coerenza o vigliaccheria?