“DOGTOOTH”: IL CINEMA DI LANTHIMOS COLTIVA (E CREA) PAURE

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di Mariantonietta Losanno 

Per comprendere il significato di una metafora bisogna compiere uno sforzo. Minimo, ma pur sempre uno sforzo. Quella che ci propone Lanthimos, invece, è una vera e propria sfida, presentata – e giustificata – come un’allegoria. È il suo alibi per “difendersi”, il suo “lasciapassare” che gli consente di mettere in scena qualsiasi cosa voglia. 

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Da qualche parte, in un mondo che non sembra reale, vive una famiglia “autarchica”. Il padre impone regole e condizioni di vita ai figli, che vivono isolati al punto da non avere neppure il permesso per superare il confine del giardino; anche la moglie asseconda e si sottomette ai dettami di un’educazione che non si può definire rigida, ma ai limiti dell’assurdo. In questa famiglia, i figli apprendono parole coniate appositamente per dare modo ai genitori di chiudere i loro contatti con l’esterno, lavorando sulle loro paure e nascondendo qualsiasi significato possa “accendere” in loro il desiderio di conoscere ed esplorare, o semplicemente vivere. Come in un regime totalitario, i genitori minacciano creando terrore: in questo modo si assicurano il rispetto dei figli e la loro totale abnegazione. Che succede, però, se ad una di quelle folli regole qualcuno viene meno? 

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Lanthimos ipnotizza i suoi personaggi e il suo pubblico mettendo in scena una manipolazione ben studiata per mettere in crisi qualsiasi certezza. L’assurdità di certe situazioni diventa persino humour nero, ma sono risate scaturite dalla disperazione, dalle nevrosi, dalle perversità. Lo spettatore vive la stessa condizione di detenzione dei personaggi, addestrati come animali e legati dalla paura; la manipolazione del linguaggio disciplina i corpi e costruisce una soggettività distorta, malata, asservita. Lanthimos edifica una “prigione idilliaca”, progettata per dare coerenza al suo “alibi”: l’atmosfera “incantata” di quella casa immersa nel verde nasconde i reali intenti della narrazione. “Intrappolando” il suo pubblico, il regista de “Il sacrificio del cervo sacro”, costruisce, poi, i loro ragionamenti. Crea i suoi spettatori, fornendogli un’educazione (anche cinematografica) e, addirittura, “bendandoli”; anestetizzando, quindi, i loro sensi e agendo, così, in modo più incisivo sulla fragilità e sulla confusione. Manipolare il linguaggio significa, però, che se si trovasse il modo di fuggire da questa realtà tutto perderebbe senso e si verrebbe a contatto con il mondo reale,

In quello che appare come uno stato fascista in “miniatura”, se non esiste una parola che identifichi la reazione e non l’asservimento, allora non esiste. Però un’eccezione c’è: si può scappare.

%name “DOGTOOTH”: IL CINEMA DI LANTHIMOS COLTIVA (E CREA) PAURELa famiglia diventa un “teatro della crudeltà”, in cui la violenza e le aggressioni si manifestano senza essere giustificati. Lanthimos educa le sue “cavie” da laboratorio e mantiene uno sguardo spietato, distaccato, cinico. In fondo, però, si tratta di una “metafora”: è questo che il regista riferisce al suo pubblico, alleggerendo, così la sua coscienza. Il Cinema può manipolare, può suggerire allegorie: Lanthimos finge di assecondare questa visione mostrando una microcosmo in cui vige un potere coercitivo che assoggetta i corpi e le menti rendendoli “ignoranti”, incapaci di distinguere la realtà dalla finzione. 

Quella di Lanthimos è una Violenza che ricorda quella di Haneke, ma – per certi versi – è più perversa, disinteressata, senza limiti. Una Violenza che ci rende ciechi, non coscienti. Il mondo di Lanthimos esiste ogni volta ci si immagina che stia esistendo: è come se fosse un “incubo”. Quella calma “illusoria” che lo guida annulla le difese dello spettatore che non trova modi per resistere. “Dogtooth” è un’opera “sgradevole” e disturbante, che si rifà a Shyamalan, Lars Von Trier e al già citato Haneke, ma che, poi, aderisce al suo stesso modello.