“SWIMMING POOL”: LA MIA DROGA (NON) SI CHIAMA JULIE

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di Mariantonietta Losanno 

François Ozon si muove a metà tra un dramma femminile che ricorda “D’après une histoire vraie” di Roman Polański (o, volendo citare il riferimento “successivo” – ma probabilmente non adeguato – “Persona” di Bergman) e un thriller psicologico che somiglia a “Secret Window” (tratto dal racconto “Finestra segreta, giardino segreto” di Stephen King) di David Koepp. 

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Claustrofobia degli spazi, ambiguità tra realtà e visioni, tema del doppio: “Swimming Pool” è una sintesi di cose già viste e sperimentate. Fin dai primissimi lavori, nel cinema di Ozon prevale la messa in scena di una trasformazione condensata in soggetti/oggetti/eventi che promuovono il passaggio da uno stato identitario all’altro; ma è anche un cinema che accoglie la trasgressione e che rifiuta etichette per poter mantenere uno sguardo libero e sincero. In “Swimming Pool” l’elemento che stimola il cambiamento d’identità è una piscina: inizialmente la vediamo coperta, poi ripulita, poi, di nuovo coperta. Protagonista della vicenda è Sarah Morton, una scrittrice di romanzi polizieschi che, in un momento di crisi di ispirazione, si rifugia nella casa di campagna del suo editore per cominciare a pensare ad un nuovo libro. La presenza inaspettata della figlia Julie, però, cambia completamente il corso degli eventi: Sarah inizia a spiarla e trae spunto dalla sua sfrontatezza per iniziare a scrivere una nuova storia.

Non serve sapere se l’universo costruito da Ozon sia reale o immaginario. L’ossessione per Julie (che diventa una dipendenza, come una “droga” per Truffaut) svolge un doppio compito: permette a Sarah di trarre ispirazione analizzando anche se stessa, e al regista stesso di sviluppare il suo racconto ampliandolo con altri temi. Julie è la proiezione di una malizia persa o mai avuta, rappresenta al tempo stesso libertà e autodistruzione, paura e indipendenza, spensieratezza e frustrazione. Attraverso l’attrazione (non necessariamente sessuale) per Julie, Sarah si riappropria del suo corpo e delle sue pulsioni; Ozon si serve del loro rapporto per “manipolare” lo spettatore (cosciente) e per giocare sulle rivalità fra le due donne, su un erotismo solo accennato, su una possessione reciproca che porta ad una catarsi. Quando il personaggio di Julie esce di scena, infatti, Sarah non sembra né sorpresa né dispiaciuta: è come se, una volta svolto il suo compito, fosse autorizzata – persino incoraggiata – ad andarsene. 

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Ozon sceglie un epilogo prevedibile ma necessario: la migliore conclusione possibile ad un’opera che si muove tra realtà e immaginazione e che, però, non tira troppo la corda. Il regista, infatti, non vuole “compromettere” il rapporto con il suo pubblico e, per questo, depone le armi. “Armi”, in realtà, che non aveva utilizzato per “colpire”, ma in ogni caso preferisce fermarsi prima e non dopo. Ozon suggerisce una continua illusione di una trasformazione fisica delle due protagoniste, come se potessero rubare l’una la vita dell’altra. Non si ha, però, la certezza che l’incontro tra le due sia stato reale o soltanto necessario alla gestazione del nuovo romanzo di Sarah. Ozon tratta allo stesso modo i due piani della narrazione, senza avvalorare un’unica interpretazione della storia. A un certo punto, però, si ferma, decidendo di non spingersi oltre. Stabilisce dei confini.