2° GIORNO | 21ESIMA EDIZIONE CONCORTO FILM FESTIVAL: OTTO GIORNI DI CINEMA BREVE CHE RECUPERA RICORDI, CONDUCE SU ALTRI MONDI E FA “VOLARE”

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di Mariantonietta Losanno 

Nella seconda serata del Festival sono stati proiettati altri sei film in concorso, ed è stata posta ancora l’attenzione sui temi dell’integrazione e della “diversità”. Mantenendo sempre un approccio nuovo: con ironia, creatività, intelligenza. Si tratta di “esorcizzare” – termine non usato a caso – la paura, la sofferenza e persino la violenza. Ci si sofferma su temi legati all’attualità (infortuni sul lavoro, molestie, dipendenze da social network) che si legano ad esperienze personali in modo naturale; si affrontano (ancora) un’evoluzione e un cambiamento, seguendo un percorso intimo e uno “condiviso”. Tra gli sguardi attenti di un pubblico mosso dalla necessità di conoscere e comprendere, si sviluppano altri sei “mondi” differenti. Un pubblico che, oltre ad essere curioso ed affascinato, mostra l’intenzione – data la grande partecipazione, anche per le proiezioni fuori concorso – di coltivare idee stimolanti e formative. 

Tra un corto e l’altro, oltre ad uno spazio per intervistare attori e registi, viene lasciato un breve momento di riflessione prima di “ripristinarsi” per la prossima visione. Anche nell’“attesa” non ci si ferma mai. 

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1: “DATSUN”, DI MARK ALBISTON: LASCIARE SCORRERE IL DOLORE

(Nuova Zelanda, 15’)

Un ragazzino di quattordici anni non vuole separarsi dalla macchina del padre. Nonostante la madre sia intenzionata a venderla, decide di portare suo fratello minore e il suo migliore amico a fare un “giro”. È chiaro che si tratti di una ricerca (forzata) di svago; di un modo per distrarsi tanto da riuscire a dimenticare. Avviene che, dopo una perdita, si provi un particolare attaccamento agli oggetti, come se fossero – in qualche modo – un’espressione o una traccia della persona che non c’è più. E dagli oggetti è ancora più difficile separarsi perché – potenzialmente – potrebbero vivere per sempre. Una macchina potrebbe non funzionare più, ma non per questo smetterebbe di esistere. Diventa, allora, più doloroso ancora – come se si subisse un’ulteriore perdita – affrontare un altro distacco e lasciare andare. Il protagonista assoluto della vicenda è – naturalmente – il dolore, rappresentato metaforicamente attraverso la macchina. A volte, però, è giusto anche non slegarsi dagli oggetti. Creandogli uno spazio nuovo, magari. Il fatto che restino infonde una sicurezza che aiuta ad andare avanti. Ed è giusto (ancora) lasciare che il dolore scorra: all’inizio la macchina – ovvero il padre defunto del ragazzo – voleva essere guidata a tutti i costi, poi distrutta (con il consenso della madre che aveva compreso il bisogno del figlio di “dover finire di sfogarsi”), poi conservata. Come se fosse un ciclo, che non ha – e non potrebbe avere – uno schema, ma che aiuta ad andare avanti. 

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2: “BY FLÁVIO”, DI PEDRO CABELEIRA: L’OSSESSIONE DI ESSERE CONNESSI E NON PRESENTI 

(Portogallo, Francia, 27’)

Màrcia vive con la costante necessità di vivere la realtà dei social. Scatta foto, le modifica, le posta. Aspetta, poi, i commenti e le interazioni; pazienta che arrivi il suo “momento” per fare qualcosa di più concreto. Nel frattempo vive la sua vita con Flávio, suo figlio, suo “aiutante” e suo complice. È lui a scattarle le foto, a consigliarle di pubblicare la “più bella”, ad aiutarla a inseguire il suo obiettivo. Finalmente arriva l’occasione tanto aspettata: un famoso rapper la invita ad un appuntamento “allettante”. Non sa dove lasciare Flávio e decide, allora, di portarlo con sé. Studiano un piano: lui può girare per il centro commerciale, giocare e mangiare quello che gli piace e lei può sfruttare l’opportunità che desiderava. Basta che Flávio resti nei paraggi, così da poterlo tenere sotto controllo. Quello che le viene offerto, però, non la convince. Preferisce rinunciare che svilirsi. Perché, quello che attanaglia Màrcia è, più che il desiderio di sentirsi “apprezzata” (e quindi bella e desiderabile), riuscire a realizzare qualcosa di “grande”, che venga riconosciuto da tutti, primo fra tutti Flávio. È questo quello che insegue. Ma non è così soggiogata dai meccanismi della tecnologia tanto da non riuscire a guardare la realtà. 

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3: “DANCING COLORS”, DI M. REZA FAHRIYANSYAH: ESORCIZZARE LA PAURA DEL DIVERSO 

(Indonesia, 15’) 

Prima italiana di un corto che vuole omaggiare la tradizione, facendone, però, risaltare i “limiti”. Per far piacere ai suoi genitori, Dika si sottopone ad un rituale che ha lo scopo di “lasciare uscire quello che di maligno ha dentro di sé”. Come un esorcismo. Il maligno, però, è – in realtà – solo il suo orientamento sessuale. L’idea del corto, nato dalla lettura di articoli in cui si racconta come vengono messe in atto queste “pratiche” di riabilitazione forzata, è quella di mostrare (con una satira intelligente) quali conseguenze portano la mancanza di cultura e l’attaccamento morboso al ritualismo. Perché si tratta di questo: di mancata conoscenza, di rifiuto categorico, di ricorso a (improbabili) rituali che strappano persino una risata data la loro assurdità. L’unico modo per affrontare queste questioni è “da essere umano a essere umano”, ha spiegato il regista. Rifiutare il ritualismo per scegliere l’umanità, ma anche la cultura. Perché si tratta (anche) di questo. 

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4: “ON SOLID GROUND”, DI JELA HASLER: L’IMPERTURBABILITÀ CHE FA I CONTI CON LA PAURA

(Svizzera, 13’) 

Eli sembra voler fuggire dalla frenetica realtà quotidiana, sembra (quasi) indifferente agli altri, persino infastidita. Fino a quando si scontra con la paura, quella che non può essere sconfitta perché è una lotta troppo impari. Mentre torna a casa da sola viene importunata da alcuni ragazzi che, accostandosi a lei con la macchina, la invitano a salire. Ed è lì che la paura viene fuori, nonostante si cerchi di nasconderla. Come si può risolvere questa condizione che accomuna tutte le donne? O, meglio, ancora prima di risolverla, come si affronta? Costruendo una maggiore solidarietà, forse. Educando, insegnando il rispetto. Viene da chiedersi, però, se tutto questo possa bastare, perché finora non sembra sia bastato. Questa lotta potrà mai diventare equa? 

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5: “FRIDA”, DI ALEKSANDRA ODIĆ: L’EMPATIA MA NON L’IDENTIFICAZIONE CON L’ALTRO 

(Germania, 23’) 

Una giovane infermiera stringe un particolare rapporto con una sua paziente. Non si tratta di una “confusione di ruoli” come in “Persona”, in cui il legame tra Alma e l’attrice Elisabeth Vogler da una fase di accudimento iniziale si trasforma fino a portare ad una fusione. Nel corto di Aleksandra Odić, l’infermiera conosce il suo ruolo, si sente solo molto vicina a Frida, come se non volesse rassegnarsi all’idea di doversi allontanare da lei. È un legame sincero, non una proiezione di se stessa. Si rifiuta di accettare l’idea di non poterla salvare, che il fatto di sentire verso di lei un affetto disinteressato (e neppure coltivato) non serva ad aiutarla. E se, invece, fosse “servito”? Se si dovesse credere di dover fare del bene solo quando si hanno riscontri positivi della sua efficacia, non si metterebbero più in atto gesti d’amore, intendendo con “amore” qualunque accezione si voglia dare alla gentilezza, all’attenzione, alla cura. “Non serve che servano” i gesti disinteressati di “amore”. È necessario che si continui a credere che servano, che ci si adoperi affinché si senta il desiderio di voler infondere quell’(accezione ampia di) amore. 

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6: “WARSHA”, DI DANIA BDEIR: LA LIBERAZIONE DI SENTIRSI PIÙ FORTI DELLA PAURA

(Libano, Francia, 16’) 

Vincitore del premio selezionato dal pubblico al Sundance Film Festival, il corto di Dania Bdeir si sofferma su un argomento di grande attualità (gli infortuni sul lavoro), per approfondirne altri ancora più grandi. Mohammad lavora come operatore di gru a Beirut; un giorno si offre di salire su una delle gru più alte e pericolose di tutto il Libano. Più che sfidare la “sorte”, andando incontro al pericolo, è una sfida con se stessi, un desiderio di sentirsi “in alto”, in un luogo da cui è possibile guardare tutti ma dove non si può essere guardati dagli altri. Un luogo di intimità, in cui è possibile concedersi una danza liberatoria, dimenticandosi di trovarsi in una condizione di pericolo. Conta più la libertà che la paura. Sulla gru Mohammad si sente più forte e sicuro di sé; lì nessuno può disturbarlo, non ha bisogno di “chiudersi a chiave” per vivere dei momenti di (sana) solitudine. Quella gru – definita la “bestia” – è, allora, un nemico da combattere per riuscire a riappropriarsi di se stessi.