“UNA FEMMINA”: QUANTA STRADA ANCORA DA PERCORRERE PER NON “ABBASSARE PIÙ GLI OCCHI”?

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di Mariantonietta Losanno

“A tutte le donne vittime della ‘Ndrangheta”: questo è l’incipit del film esordio alla regia di Francesco Costabile, selezionato alla 72esima Berlinale nella sezione Panorama, liberamente ispirato al libro “Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il Paese dalla ‘Ndrangheta”, di Lirio Abbate, anche soggettista con il co-produttore Edoardo De Angelis, e sceneggiatore.

È una guerra quella che mette in atto Rosa, che combatte sia per lei che per tutte le altre donne. Prima di tutto per sua madre, uccisa perché “non capiva quando era il momento giusto per tacere”. Parlava troppo, non obbediva, non si prostrava. E allora andava “eliminata”, con la complicità di altre donne però, tra cui la zia di Rosa. Lei, allora, nata e cresciuta “in cattività” – come “bestie sbandate senza rispetto” – ha aspettato il momento giusto per agire e potersi vendicare. Ma cosa significa contrastare la ‘Ndrangheta che, a differenza di altre organizzazioni di stampo mafioso, si basa “proprio” sul legame di sangue? E, ancora, che valore ha combattere questa guerra da donna? 

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Alla base dei sodalizi mafiosi, c’è l’adesione a una fratellanza fondata su un contratto di status. come i membri di una setta religiosa, gli aderenti alle famiglie di Cosa nostra o della ‘Ndrangheta, si sentono moralmente qualificati e, convinti di appartenere a un’associazione di élite, sviluppano un forte senso di superiorità nei confronti del mondo esterno. Sono, quindi, portatori di un “codice d’onore”, che li rende migliori di altri, e di un dualismo etico tale da non far provare loro alcun senso di colpa. Il punto è che, per iniziare una guerra in cui non si hanno le stesse armi a disposizione, e quindi – da un certo punto di vista – risulta iniqua e destinata a fallire per natura, bisogna demitizzare sia le persone che quello a cui credono di appartenere. Considerandoli come meritano di essere considerati: poco più che animali, capaci di andare oltre qualsiasi cosa, anche gli stessi legami di sangue grazie ai quali si uniscono. 

Le donne venivano considerate “pazze” e quindi andavano curate con i farmaci o con metodi ancora più duri, cercando di impedire il manifestare degli istinti, i ragionamenti, le azioni. Rosa, però, nel momento in cui glielo viene chiesto, “abbassa gli occhi”, ma solo per prendersi del tempo e pianificare le sue mosse. Quel mondo lo conosce ed è anche consapevole delle conseguenze che subirà. Va comunque oltre, proseguendo la sua battaglia. Per sua madre, che è stata uccisa e seppellita senza neppure apporre il nome sul loculo, come se non ne fosse degna; per restare “invisibile”, così come lo sarebbe dovuta essere quando era in vita. 

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Francesco Costabile segue la stessa strada seguita da Jonas Carpignano in “A Chiara” – vincitore ai David di Donatello – andando oltre tutto quello che abbiamo visto associare a luoghi comuni o a (inflazionati) prodotti cinematografici sul tema: le due pellicole raccontano, infatti, con uno sguardo lucido e attento, cosa significhi opporsi a una realtà che non concede redenzione. La pellicola rimanda, poi, anche a “Il vizio della speranza” dello stesso Edoardo De Angelis, interpetrato da Pina Turco, una giovane donna al servizio di un sistema camorristico che compra e rivende neonati. Anche lì ci sono vendetta e desiderio di sentirsi libere da quel “sistema”: c’è la possibilità di un’evoluzione in un scenario in cui ogni “bruttezza” sembra essere data per scontata, come se dovesse essere accettata per rassegnazione. E invece c’è una possibilità per uscire dall’abbandono, dalla macerie, dalle “leggi” che asserviscono. 

Rosa vendica sua madre che, oltre a essere stata “sedata” in quanto donna, è stata punita anche per essersi ribellata a quell’educazione criminale. Lei, invece, la sua battaglia – in parte – l’ha vinta. Francesco Costabile, attraverso il fuorifuoco di metà dello schermo delle scene iniziali, descrive – visivamente ma non solo – un mondo che è ancora sconosciuto per certi versi ma per altri, ormai, non lo è più. 

Quella di Rosa è una ribellione che riguarda ognuno di noi, perché ha a che fare con l’affermazione di sé; è espressione di un dolore e di un desiderio di rinascita. “Questo non è un atto di amore verso la Calabria ed i calabresi. È un pezzo di cuore dedicato ai calabresi che si ribellano e che sono migliori di come sono stati superficialmente descritti. Lo abbiamo detto a Berlino e lo ripetiamo in ogni occasione. Io sono legato alla Calabria quanto Francesco, per via di una storia familiare. Le immagini, le espressioni, i volti, i luoghi del film raccontano questa terra meravigliosa. E la scelta della recitazione in dialetto come delle location rispecchiano tutto il nostro amore per questa terra e per la sua gente”, ha raccontato in un’intervista il giornalista – e attualmente direttore de “L’Espresso” – Lirio Abbate. 

“Quanta strada dobbiamo fare ancora per essere liberi?”: è una riflessione che – senza scendere nella retorica – dobbiamo fare tutti.