“PLAY”: LE STRATEGIE DI RUBEN ÖSTLUND, I MECCANISMI DI POTERE E L’ACCESSO (POLITICAMENTE SCORRETTO) ALLE POSSIBILITÀ

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di Mariantonietta Losanno 

La paura del crimine è un’emozione – di tipo adattivo – causata dalla consapevolezza o dall’aspettativa di un pericolo; si presenta come un costrutto complesso (perché è il crimine stesso può assumere forme molto diverse tra loro), che ha come conseguenze effetti negativi sull’autostima, condotte di auto protezione che – paradossalmente – innescano ulteriori ripercussioni, ritiro dalla comunità, aumento della divisione sociale tra ricchi e poveri. È necessario – approcciando a questi discorsi sul crimine – adottare uno sguardo critico; è insito nel ragionamento sulla criminalità, infatti, il pregiudizio e il senso comune. Sono proprio questi preconcetti ad associare il crimine a particolari categorie sociali, a luoghi in cui si può verificare l’atto criminoso, alla violenza, alla prevaricazione. Ruben Östlund “gioca” con queste costruzioni sociali per destrutturare i concetti di criminalità e pregiudizi, mettendo in scena meccanismi di Potere basati sulla strategia e non sulla violenza.

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Un gruppo di ragazzini avvicina un altro gruppo di coetanei con la scusa di chiedere l’ora; superato il tempo necessario per ottenere la loro attenzione, mettono in atto la loro “linea d’azione”. Chiedono, in modo naturale e controllato, di vedere uno dei loro cellulari e inventano una storia – con la complicità di tutti – per rubarlo: fanno credere che si tratti dello stesso telefono rubato ad un loro parente, analizzando i graffi e “fortificando” la storia senza bisogno di utilizzare un tono minatorio o di compiere gesti violenti. Gli altri ragazzi rispondono con eccessiva (e, si spera, poco plausibile) ingenuità non solo “stando al gioco”, ma addirittura prostrandosi. L’azione, poi, si svolge nella quasi totale indifferenza: non suscita reazioni da parte di chi osserva né particolare clamore. In fondo, si tratta solo di ragazzini che parlano, non si percepiscono toni concitati o manifestazioni di aggressività. A questa prima strategia ne seguono altre, di diversa forma, ma più o meno tutte legate dallo stesso meccanismo prevaricante ma non violento. I ragazzi fanno finta di “sfidare” il gruppo di coetanei con le stesse possibilità per poi imbrogliare e continuare a manipolare. E a deridere. 

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Östlund – vincitore di due Palme d’oro a Cannes con “Triangle of Sadness” e “The Square” – riflette sui pregiudizi associati al crimine, sulle diverse opportunità a cui hanno accesso le persone e sulle posizioni di inferiorità e superiorità meritate o conquistate con la forza. La remissività del gruppo che subisce rimanda alla mancanza di acume nella famiglia che Bong Jonas-ho mette in scena in “Parasite”: i ragazzi vengono ingannati senza inganno, con una semplicità che spaventa e disturba. Lo spettatore è persino portato a pensare (ed è in questo che il regista mostra i punti vincenti della strategia) che lo meritino, perché non sono in grado di difendersi. 

Il regista si assume la responsabilità delle sue provocazioni e affronta il tema della stigmatizzazione senza cedere alla banalità o all’approvazione del pubblico. Si espone, rivela la paura e la vulnerabilità, sovverte i concetti di diversità e racconta con obiettività il concetto di responsabilità sociale.