“CACHÉ (NIENTE DA NASCONDERE)”: HANEKE “SPIA” – E CI CONSENTE DI SPIARE – NELLA (NOSTRA) MEMORIA

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di Mariantonietta Losanno

Ci sono traumi su cui tornare, persone da rivedere, qualcosa di irrisolto che va definito. Haneke ci (ri)conduce nelle irrisolutezze di una coppia la cui apparente tranquillità viene sconvolta da un’“intrusione”. George e sua moglie ricevono delle videocassette che li ritraggono in momenti della loro vita privata; inizialmente vengono ripresi e spiati mentre entrano ed escono di casa, poi le immagini diventano più intime – come se ci fosse un legame – e arrivano anche inquietanti disegni, strani avvertimenti. Il segreto viene svelato solo “parzialmente”, ma l’obiettivo non è (solo) arrivare ad una verità: Haneke insiste sulla rielaborazione dei ricordi, sul senso di colpa e sulla vigliaccheria di una classe sociale che tenta di mantenere salda la propria integrità. 

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George resta sempre distaccato, come se la sua emotività rimanesse “fuori” dalla vicenda. I rimorsi non sono solo privati, ma collettivi; c’è una diffusione di responsabilità che rivela debolezze e ingiustizie commesse in “altri” tempi e volutamente dimenticate. Haneke pone lo spettatore (che rappresenta l’unico testimone) all’interno e all’esterno della storia: all’interno perché la vicenda viene raccontata attraverso la prospettiva della videocamera che spia la famiglia di George, e all’esterno perché anche il pubblico avverte la sensazione di essere spiato (o persino “violato”), una sensazione di “disagio” non inedita. Infatti, il cinema del regista di “Amour”, “Funny Games”, “La pianista” riesce a provocare con intelligenza, facendo sentire lo spettatore come se non fosse mai al “sicuro” da se stesso: Haneke indaga territori e sentimenti “scomodi”, facendo emergere (anche) quello che non vorremmo conoscere o che riteniamo più semplice non considerare. 

Il cinema di Haneke trasmette, al tempo stesso, una sensazione di familiarità ed estraneità. L’arrivo delle cassette ci riporta (inevitabilmente) a “Strade perdute” di David Lynch o – se pensiamo solo all’espediente utilizzato e al trauma vissuto nell’infanzia – all’esordio alla regia di Joel Edgerton “Regali da uno sconosciuto – The Gift”. I pacchetti che vengono recapitati (prima solo a George e alla moglie, poi anche a suo figlio e al suo capo) mettono – apparentemente – in crisi il rapporto di coppia: in poco tempo, in realtà, si comprende come si tratti di vigliaccheria anche nell’ambito sentimentale. La coppia non può crollare se non c’è niente che sta in piedi: sono solo le formalità a portare avanti le cose, come per inerzia. Haneke, poi, suggerisce allo spettatore un altro spunto di riflessione: che cosa succede quando ci si (ri)guarda da adulti? Quando si ha maggiore consapevolezza di sé, quando si conosce il senso del “giusto” (quantomeno quello del buono o il rispetto delle leggi) e quando ci si può osservare con uno sguardo critico? Si potrebbe scoprire di non essere realmente cambiati, di essere solo diventati una versione adulta di quello che si è stati da bambini: “Caché” (ci) mostra il fallimento di un sistema di valori, l’egoismo avido di chi si nasconde e si deresponsabilizza. 

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L’ultima inquadratura – la cui distanza non ci permette di cogliere il senso preciso degli eventi – consente allo spettatore di fornirsi delle spiegazioni rispetto al “vero” colpevole: chi è stato a spiare? E chi è stato posto, poi, nella posizione di chi spia ha saputo reagire e intervenire? Ci sono state assunzioni di responsabilità? “Niente da nascondere” si rivela, allora, anche un film politico: una rappresentazione lucida e attuale che spinge a domandarsi qual è il ruolo – e quali sono le colpe – di chi osserva.