FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2022 | “CAUSEWAY”: INCONTRARSI E (RI)CONOSCERSI NEL “BUIO”

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di Mariantonietta Losanno

L’esordio della regista teatrale Lila Neugebauer – presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione “Progressive cinema” – è il racconto intimo di un tentativo di (ri)adattarsi alla vita. Lynsey (Jennifer Lawrence) è un ingegnere militare, che dopo aver subito una lesione cerebrale dovuta all’esplosione di un ordigno in Afghanistan, ritorna nella sua città natale – New Orleans – per iniziare un lento recupero e sperare in un possibile reintegro. Tornare nella propria città natale non vuol dire tornare a “casa”: non significa necessariamente che rappresenti il luogo dove potersi prendersi cura di sé dopo i traumi di un incidente, o che sia un posto che – proprio in quanto tale – aiuti a recuperare “parti di sé” in modo più semplice e naturale. Lynsey deve riappropriarsi di se stessa: ritrovare i suoi ricordi, riacquisire le sue facoltà, ritornare ad essere autonoma. Nonostante il recupero sia lento, vorrebbe accelerarlo, così da poter essere reintegrata; il desiderio è quello di tornare in guerra, di andarsene da un posto in cui è cresciuta infelice e da cui è già scappata una volta. 

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È l’incontro con James, un meccanico conosciuto per caso, ad aiutarla “realmente” nella riabilitazione. Il rapporto tra i due – entrambi soli con i loro sensi di colpa e con un handicap diverso – è un’occasione per far riaffiorare i traumi e per affrontarli, per entrare in quel “buio” provando ad orientarsi, a muoversi, a restarci. “Causeway” è un film sulle “parole”, quelle usate in modo sbagliato (“Mi hai fatto compassione”), quelle che non si ha il coraggio di pronunciare, quelle che sperano di convincere un medico a firmare un permesso (“Sto bene”, “Mi sento pronta”, “Mi sento bene”) per tornare in un posto in cui non è necessario pensare o conoscersi. È un film sui legami: quelli primordiali (il rapporto tra madre e figlia è il vero fulcro dell’opera, la stessa Jennifer Lawrence ha raccontato in un’intervista che è stata la tematica che ha accomunato tutti i suoi film: “L’arte il più delle volte riguarda la propria madre. Esito a dirlo perché non voglio che qualcuno torni indietro e guardi i miei film – o questo in particolare – pensando che questo è il modo in cui sto dipingendo mia madre”), quelli instaurati per caso – che non necessariamente si trasformano in una (scontata) storia d’amore – e che aiutano, non solo a guardarsi e a riconoscersi, ma anche a confessare aspetti di sé inediti.

“Da quanto tempo trattieni il fiato?”, chiede James a Lynsey, che è alla ricerca costante di “acqua”: in quell’elemento sente di essere se stessa, ed è nell’acqua che prova ad affrontare il suo “buio”. In piscina, infatti, avviene sia il litigio con James, in cui entrambi si espongono e si accusano, che il primo vero dialogo con sua madre.

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“Causeway” è un’opera intima, che vive di gesti minimi ma essenziali, che affronta l’indifferenza e la compassione; è un racconto di sofferenze, ma anche di guarigione. Non ha bisogno di cadere nel cliché della storia d’amore che “salva” le vite, né ricorre a battute “ad effetto” o a finali consolatori; si basa sulla recitazione – e sulla marcata impostazione teatrale – e su cose “minime”, invisibili, reali. Neugebauer segue il “ritmo” di Lynsey – e il flusso del dolore, ricordandoci quello di “Manchester by the sea” – dandole il tempo per tornare a “riprendere fiato” (per muoversi, comunicare, capirsi) e imparare a convivere con i propri traumi semplicemente vivendoli. L’antidoto è la parola: la propria storia raccontata, ascoltata e riconosciuta senza essere più giudicata, può diventare il punto di partenza per un percorso di “auto-osservazione”. Nel raccontarsi ci si riscrive e ci si reinventa: si dà ordine, si fissano passaggi e traguardi, si attribuiscono significati.