FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2022 | “IL COLIBRÌ”:”TRASMETTERE IL VUOTO” E LA REMISSIVITÀ 

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di Mariantonietta Losanno 

“È difficile assistere ad un’agonia”: è paradossale come questa frase, pronunciata da Pierfrancesco Favino – che interpreta Marco Carrera – quasi “alla fine” del racconto sia la sintesi dell’intera opera di Francesca Archibugi (presentata in apertura alla diciassettesima Festa del Cinema di Roma), tratta dal romanzo Premio Strega di Sandro Veronesi. Perché, è proprio di agonia che si tratta; un’agonia che annichilisce, sfinisce, “trasmette il vuoto”. 


%name FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2022 | “IL COLIBRÌ”:”TRASMETTERE IL VUOTO” E LA REMISSIVITÀ La vicenda prende forma attraverso la figura di Marco, un uomo che vive in “sospeso”, senza mai precipitare fino in fondo. La sua vita segue un continuum di dolore, di perdite, di coincidenze che non si trasformano (quasi) mai in occasioni. Non c’è passione o entusiasmo neppure quando si trova di fronte a (quello che definisce) l’amore assoluto; non c’è rabbia o rancore neanche nei confronti di delusioni o torti ricevuti che non ammettono giustificazioni: c’è solo un’assoluta remissività. Marco non esulta neppure quando vince; anzi, rifiuta la vincita, così come rifiuta la realtà. Il racconto segue – facendo continui salti temporali – tutta la sua vita; il rapporto con i genitori perennemente in conflitto tra loro, il primo “incontro” – a cui seguiranno altri – con la malattia mentale, l’ostinazione nel rincorrere un amore che continua a restare nascosto e inespresso. In questa “liquidità” l’unica costante è la perdita: tutte le coincidenze della sua vita hanno come filo conduttore il dolore, che si presenta in una forma che non ammette margini di “ripresa”. È assoluto. L’unico elemento che “resiste” è l’immaginazione, anche questa, però, assume presto i connotati di un disturbo psichico; non è fantasia, ma allucinazione. Se, però, i sentimenti sono approfonditi, non lo sono altrettanto i personaggi: li conosciamo attraverso gli eventi, non attraverso le loro esternazioni. “Il colibrì” si presenta, allora, come il racconto impersonale di una vita, in cui tutto quello che viene fuori – tutto quel “Male” – resta impunito, mai affrontato o discusso. 

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Eppure Marco lotta – o “va avanti” (?) – ma resta ugualmente nello stesso posto (e alla stessa “altezza”) dove si trovava da bambino, con le stesse irrisolutezze. Forse solo con sua nipote, alla fine, impiega le sue energie in una direzione “non disperata”, ma in tutte le altre circostanze della sua vita rimane immobile ed inerme. Ed è così che il racconto cade nella retorica e nella banalità, in continui crescendi spezzati nel punto cruciale. Il titolo – il “colibrì” – rimanda al nomignolo con cui Marco convive sin da bambino per via della sua piccola statura. Forse l’intento della pellicola era di (di)mostrare come – ricordo dopo ricordo – avesse raggiunto una “statura” normale, come se si fosse anche “rafforzato”. Il problema è che Marco non solo resta immobile confermando continuamente la sua servilità e la sua rassegnazione, ma non cresce né si rafforza. Gli stessi drammi che hanno contraddistinto la sua infanzia lo accompagnano – con ciclicità – anche in età adulta.

La vita che Marco ripercorre è stata davvero vissuta? Lo spettatore attraversa il flusso di ricordi cercando un “fil rouge” e lo trova nell’esasperazione, nell’infelicità, nella follia ignorata e normalizzata. Si potrebbe scegliere, allora, di diventare cinici, come il fratello di Marco che commenta con superficialità il legame tra i suoi genitori che sono più uniti nella morte che nella vita (“Non sono mai stati felici insieme, ora vogliono morire insieme?”); ma il cinismo sarebbe una scelta, un “movimento”: il “colibrì”, invece, rimane nella sua immobilità. E anche i suoi sentimenti restano “fermi: non si manifestano né si evolvono.