“BATTLE ROYALE”: FUKASAKU CI “SFIDA” (DOPO PIÙ DI VENT’ANNI) IN UNA BATTAGLIA “DEUMANIZZANTE”

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di Mariantonietta Losanno 

Il (non)cult “Battle Royale” è stato restaurato e proiettato nelle sale italiane dopo ventidue anni dalla sua uscita. La pellicola – una sorta di profezia distopica – nonostante abbia generato, quando fu realizzato, nel 2000, uno choc “paragonabile all’impatto di “Arancia meccanica”, non aderisce perfettamente a quell’idea – e quell’etichetta – “cult”: Ed è un bene. 

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La pellicola si presenta come il racconto di una guerriglia: nello scenario distopico di un possibile Giappone futuro, è stata promulgata una legge in base alla quale le classi più “vivaci” vengono deportate su un’isola deserta e obbligate ad impegnarsi in una lotta all’ultimo sangue, in cui deve necessariamente rimanere un unico vincitore: solo una persona sopravvivrà e potrà rientrare in società. A gestire la “lotta” c’è un professore, che esercita, come se fosse in una scuola, la sua professione: mantiene la disciplina, risponde alle domande quando gli viene chiesto di fornire chiarimenti, “assiste” gli studenti che hanno più difficoltà a gestire la situazione. Ognuno dei ragazzi riceve in dotazione un’arma, ma non per tutti si tratta di una forma “canonica”: ad alcuni una pistola o un’ascia, ad altri una bussola, un localizzatore, il coperchio di una pentola. Naturalmente, più persone si uccidono, più armi si ottengono e cresce la possibilità di vincere. C’è anche chi vive “romanticamente” la guerra, lottando con (e per) amore. E persino chi lo fa per “divertimento”, scendendo in campo e appellandosi a quelle soluzioni retoriche di diniego della responsabilità (che lo psicologo Albert Bandura ha definito forme di “disimpegno morale”), per venire a patti con i propri criteri morali, per giustificare le proprie atrocità. 

Violenza contro violenza: non ci sono buoni né cattivi, e anche se ci fossero non potrebbero modificare le regole del gioco, che prevede un solo vincitore. I partecipanti sono dotati di un collare, segno distintivo di uno dei meccanismi della “deumanizzazione” (quel processo che priva un soggetto delle qualità prototipiche umane) che associa l’uomo alle caratteristiche animali: l’animalizzazione. Ed è proprio il collare a segnalare la morte dei partecipanti. Lo stesso collare con cui erano tenute al guinzaglio le vittime irachene delle violenze perpetrate al carcere di Abu Ghraib, a conferma del fatto che non siamo di fronte ad uno scenario realmente  distopico.  

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Non c’è “Squid Game” che tenga di fronte ad un’opera così profondamente lucida e violenta come “Battle Royale”, che si presenta come l’espressione di un cinema politico, estremo, realistico. A partire dalla critica ai metodi educativi fino ad arrivare alla lotta in cui non ce n’è per nessuno (non ci sono differenze di status che consentono vie privilegiate per sfuggire al pericolo), Fukusaku analizza i meccanismi di sopraffazione e violenza in un scenario (non troppo) distopico. E il fatto che non si tratti di una realtà (così) distopica è stato confermato proprio dall’attaccamento morboso a “Squid Game”, che ha “ipnotizzato” il pubblico.

“La vita è una gara: combattete tutti al vostro massimo”, dice il professore ai suoi studenti per incitarli. E se fossimo già in una gara/guerra? Probabilmente combattuta con forme di deumanizzazione più sottili (legate alle “sottrazione” di umanità, come quelle prodotte dai media), ma comunque violenta, pericolosa, incontrollabile. Se fossimo già in un (sadico) gioco di sopravvivenza? L’iper-violenza di “Battle Royale” (che ci ricorda anche “Il signore delle mosche”) è illuminante, ancora di più vent’anni dopo.