IL SONNO DELLA STORIA

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  –   di Vincenzo D’Anna*   –                                              

Fu Marco Tullio Cicerone, oratore e giurista insuperato dell’antica Roma a definire la Storia “maestra di vita”. Tuttavia questa massima ben nota agli studenti di un tempo, giace da tempo polverosa ed inattuata nelle pratiche quotidiane degli italiani. Non a caso Indro Montanelli, uno dei più grandi giornalisti del secolo scorso, soleva ripetere che gli abitanti dello Stivale erano da considerarsi un popolo di contemporanei e come tali senza ascendenti né discendenti. Un popolo che non conoscendo le vicende del proprio passato, avrebbe vissuto quotidianamente senza far tesoro degli eventi andati. Una sciatteria quasi ontologica, una trascuratezza imperdonabile che ci trasformava in una massa immemore ed ingrata, pronta a ripetere gli stessi errori in analoghe circostanze politiche e sociali. Fu così che nacque l’aforisma sulla Storia che insegna tutti i giorni senza mai trovare discepoli. La scomparsa della materia in questione dai programmi scolastici, ha ulteriormente accentuato questa carenza culturale e con essa sono aumentati sia l’ignoranza sia l’abitudine a non saper trarre insegnamento dagli eventi passati in chi governa la nazione nella stessa misura di chi ne è governato. Un’esacerbazione dell’oblio della memoria che porta la Nazione a dimenticare ed a trascurare fatti che pure ne hanno segnato l’esistenza nel corso dei secoli. A nulla vale la giustificazione che le personalità del passato ed i grandi accadimenti che le videro protagoniste, sarebbero ormai anacronistici e come tali poco sentiti dalle moderne generazioni. Se così fosse la scuola avrebbe dovuto insegnare solo la Storia contemporanea e non quella che pur fece grande, per capirci, l’impero Romano. Se gli eventi storici fossero giudicati per importanza in base alla loro prossimità temporale con l’epoca corrente, dal primo libro di Storia, l’Anabasi di Senofonte, a quelli che ne sono seguiti, potrebbero anche andare tutti al macero. Così non è e non potrebbe essere per il semplice fatto che tutta la nostra cultura, le tradizioni, la lingua, i legami costruiti nel tempo tra le genti italiane verrebbero resi inutili e ridondanti e si perderebbe ogni orientamento ed ogni capacità di identificarsi nei medesimi. Se questo stato di cose non si fosse perniciosamente esteso a larga parte della popolazione a partire dai banchi di scuola, non verrebbero ignorate celebrazioni a memoria di eventi che hanno dato una svolta alle vicende patrie. Tra le tante è passato sotto silenzio l’11 febbraio e la firma dei patti Lateranensi tra lo Stato e la Chiesa Cattolica. Un atto di importanza epocale, con il quale si definì, dopo anni di acredini e controversie, la tipologia dei rapporti, i diritti e le prerogative tra il neonato Stato italiano e la Santa Sede. Senza la firma dei trattati nel 1929, da parte del primo ministro Benito Mussolini e del cardinale Pietro Gasparri, la “Questione Romana” sorta nel 1861 con la presa di Roma da parte dei bersaglieri, non si sarebbe mai appianata. L’annessione dello Stato Pontificio da parte del Regno Sabaudo con Roma capitale, aveva creato una profonda frattura tra Stato e Chiesa che andava sanata. Non furono estranei a questa decisione l’interesse del Duce e della dittatura fascista di mostrarsi degni del consenso dei Cattolici, sopratutto dopo che questi, tornati finalmente in politica dopo il divieto papale (“non expedit”) di poterla praticare, avevano ottenuto un rilevante successo nel gran segreto dell’urna. Con l’accordo il Vaticano ne guadagnava la fine dell’anti-clericalismo del governo sabaudo e si affrancava dai pericoli arrecati dall’ideologia socialista (ed atea) fin dagli inizi del secolo. Per di più i patti lateranensi aumentavano i riconoscimenti materiali e morali al clero ed alla Chiesa stessa andando ben oltre la legge delle Guarantigie (Garanzie) che già Cavour, quarant’anni prima, aveva promulgato per consentire al Pontefice (ed al mondo cattolico) di poter assolvere al proprio mandato spirituale ed ecclesiale. I “patti di Mussolini” trasformarono insomma il motto della “libera Chiesa in libero Stato” in un regime di obbligatorietà, ovvero di privilegio, della pratica della fede cattolica apostolica e romana. Storia che ancora oggi fa sentire i propri riflessi sul popolo italiano. Ebbene: può considerarsi tutto questo come qualcosa da dimenticare, affidata al solo ricordo di divulgatori di basso conio come chi scrive ed alla polvere del tempo?

*già parlamentare