SI DEVE COMUNCARE LA DIAGNOSI AI BAMBINI? CERTAMENTE E CHIARAMENTE

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Comunicare con bambini e adolescenti, spiegare loro tutti gli elementi cruciali della malattia di cui soffrono, di una disabilità di cui affetti e degli eventuali ricoveri o terapie riabilitative che devono affrontare e sostenere, non è una scelta discrezionale o opzionale, ma un preciso dovere di tutti, che sia un pediatra, un medico, un genitore sancito anche da normative internazionali. In primis esistono tre ragioni per spiegare la malattia ai bambini per cui il pediatra deve includere anche il bambino quando effettua delle comunicazioni che riguardano il suo stato di salute e si tratta di ragioni normative, mediche e infine educative, l’una ingloba l’altra e si completano vicendevolmente. La prima di queste è di tipo normativo e si ricollega alla Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo che ritiene fondamentalmente estendere anche ai giovani una serie di diritti normalmente attribuiti solo agli adulti perché i minori, pur non avendo raggiunto la piena capacità giuridica, sono considerati dei cittadini a tutti gli effetti, detentori di precisi diritti civili. Infatti gli stati membri hanno delle responsabilità molto chiare: bambini e ragazzi hanno diritto a esprimere il proprio punto di vista e a essere ascoltati, anche quando si tratta di aspetti che riguardano la loro salute e/o malattia. Da questo punto di vista, la spiegazione chiara e diretta, diviene la prima, essenziale e inderogabile tappa di un percorso di partecipazione attiva alla gestione della propria salute e del proprio sviluppo da parte del bambino che cresce. Per quello che concerne quelle mediche, vi è poi una serie di ragioni terapeutiche e curative per cui è doveroso comunicare con il bambino, ciò che farà in base alla sua diagnosi. La prima di queste è stata studiata da McLeod ed è molto pragmatica: quando si trascurano gli aspetti comunicativo-relazionali con i pazienti pediatrici, si rischia seriamente di perdere del tempo nelle fasi successive della anamnesi o della terapia. La maggior parte delle proteste e dei comportamenti oppositivi dei bambini derivano infatti dalla paura di un ambiente sconosciuto o di procedure a loro ignote e ciò avviene per una ragione molto semplice legata all’ignoto di quando i bambini non sanno cosa aspettarsi da un’esperienza, ma di solito la immaginano. Una seconda ragione di carattere medico è legata all’aderenza al trattamento. Qualsiasi intervento terapeutico si basa sulla collaborazione attiva, continua e partecipativa del paziente. Sarebbe quindi incoerente cercare una qualche forma di alleanza terapeutica con un bambino se non ci si preoccupa prima di capire cosa egli comprende della malattia e senza spiegargli il senso delle cure cui è sottoposto, che si tratti di ricoveri brevi o piuttosto lunghi, di riabilitazione. Per le ragioni educative, si deve tener conto che i bambini e i ragazzi sono destinati a crescere e diventare cittadini autonomi. Questa autonomia si può coltivare sin da piccoli, facendo leva sulla loro partecipazione attiva, efficace e alleata, spiegando il perché delle cose e coinvolgendoli attivamente nella loro realizzazione. Ogni persona ha bisogno di sviluppare un atteggiamento attivo nella gestione della propria salute e coltivare sin dall’infanzia tale abitudine, significa avere adulti più sani e attenti in futuro. A questo proposito, anche per i bambini malati esistono linee guida per la strutturazione di progetti educativi che li coinvolgano attivamente. La qualità della relazione medico-paziente è universalmente riconosciuta come una delle componenti essenziali di una buona relazione terapeutica eppure si pensa che l’interazione è in gran parte centrata sulla relazione medico-genitore, trascurando spesso i bisogni, le domande e le esigenze del bambino. Se un tempo era forse possibile escludere i più piccoli dal dialogo medico sulla base di motivi culturali, sociali o pratiche, oggi questa esclusione non è più giustificabile, per una serie di ragioni. Anzitutto i bambini di oggi sono sempre più incoraggiati a fare domande e partecipare alle discussioni degli adulti e molti, sin dall’età della scuola primaria, hanno poi libero e autonomo accesso ai motori di ricerca e internet, con il rischio che vadano a sostituire il dialogo che viene loro negato, con una ricerca solitaria, errata e incontrollata di notizie sul web. Ma cosa succede se sono i bambini a trovarsi di fronte un compagno che sembra strano, appare diverso, fa cose bizzarre, parla in modo strampalato in classe o in un parco e gli stessi bambini tendono ad evitarlo, escluderlo perché non conoscono nulla di disabilità o ancor meglio, di autismo? Perché proprio l’autismo è quella condizione di cui i tratti somatici non sono visibili e ciò che non si nota, non si tratta né si considera “come diverso” eppure lo è… I bambini sono molto più bravi degli adulti nell’immediatezza delle azioni e non hanno né preconcetti, né pregiudizi, né tanto meno schemi di azioni o tattiche da utilizzare per relazionarsi ma sono spontanei e tendono a fidarsi delle persone che si sforzano di entrare in contatto con loro, che si preoccupano di capirli e soprattutto di ascoltarli. Ma quando si cerca di comunicare con un bambino per spiegare una forma di disabilità, parlare di autismo del proprio amico, compagno o coetaneo è facile commettere degli errori, perché si può sbagliare per eccesso, per difetto, oppure scegliendo tempi, modi o linguaggi non adeguati al bambino che si ha davanti. Il primo punto per una comunicazione efficace, riguarda l’effettiva volontà di far entrare in contatto un bambino con l’altro, perché proprio l’ascolto e l’accoglienza consentiranno di offrire una risposta ai loro bisogni di risposte precise e dirette, sarà soprattutto fondamentale creare un sincero e profondo atteggiamento di rispetto e accettazione, utile e creare la sicurezza affettiva. Un altro aspetto importante da tener conto è l’osservazione degli aspetti non verbali della comunicazione e un bambino autistico non verbale, può comunicare un disagio in tanti modi, come attivare comportamenti problema o addirittura isolarsi e parlare con un gruppo di bambini normo tipici o della classe, può incentivare la conoscenza della problematica e attivare risorse di coinvolgimento del compagno autistico, proprio perché i bambini sono più bravi ad attivare “i neuroni specchio”, senza mai averne sentito parlare ne’ studiato sui libri: le azioni fatte per imitazione che portano poi all’estinzione di una condotta negativa, per assorbire e assumerne una funzionale. Accade proprio che in una classe prima, Luigi inizi a dare la testa nel muro, la classe lo guarda incredula e spaventata, compresa la maestra. Marisa si alza e lo imita, Luigi la osserva e il gioco dura pochi minuti. Marisa alla fine si allontana e inizia a giocare con delle matite colorate che sono sul suo banco, Luigi la segue, si siede e la imita. Marisa è stata brava, molto brava perché è stata capace di tirare via il suo compagno dal muro… Un ulteriore passo da seguire, è chiedere ai bambini di una classe o che giocano in un parco, cosa vorrebbero sapere di quel compagno che percepiscono come strano o diverso. I bambini che sono più piccoli di circa sei-otto anni di età non si considerano, di solito, come particolarmente diversi dai loro coetanei e hanno difficoltà a comprendere il concetto di una differenza nel neurosviluppo così complessa, quale può essere una disabilità fisica o psichica. È fondamentale che la spiegazione per i bambini sia sempre appropriata all’età per fornire informazioni che siano rilevanti dal punto di vista del bambino, è importante beneficiare di programmi appositi per aiutare ogni bambino a fare amicizia con il “bambino diverso” e godere di spazi del gioco con altri bambini, per aiutarlo nell’apprendimento e nel raggiungimento del successo anche con il lavoro scolastico. Anche questo non è un aspetto da dare per scontato, perché i bambini vogliono talvolta sapere cose che a loro appaiono diverse e soprattutto come e perché lo sono: si tratta di adottare una prospettiva nuova in cui la cosa importante resta la chiarezza e la sincerità. È il caso di Amalia, una bambina con una sindrome genetica che viene esclusa al parco da alcune coetanee che la definiscono “brutta”: la bambina corre in lacrime dalla mamma e racconta dell’esclusione dal gioco per la sua bruttura, ma la mamma, preparata e consapevole, la rassicura e raggiunge le altre piccole, spiegando loro che la sua “Amalia non è brutta ma ha una malattia genetica rara che la rende differente come tratti, ha un viso particolare ma ha sempre due gambe, due occhi, due braccia, due orecchie, una bocca e un naso ecc come loro tutte, ha un grande cuore che, seppure non si vede, soffre tanto se la si esclude dai giochi.” Le bambine chiedono scusa ad Amalia, la prendono per mano e corrono insieme a giocare sull’altalena, sotto gli occhi soddisfatti della mamma che ha raggiunto il suo obiettivo di educare alla conoscenza, alla consapevolezza della disabilità, senza timore e senza vergogna. In ogni ambiente dovrebbe essere così: ecco che risulta importante attivare e monitorare una discussione e strutturare attività dinamiche e differenziate soprattutto nelle scuole e classi per spiegare il concetto delle differenze individuali, ad esempio, includendo i bambini delle varie classi in giochi o altro e spiegare “semplificando” che i comportamenti associati ad esempio all’autismo si dividono in due gruppi:
 Difficoltà con abilità sociali: ad esempio i bambini autistici possono non reagire ai divertimenti sociali o capire come comportarsi in diverse situazioni sociali. Possono avere problemi con il linguaggio e con la comunicazione non verbale, tipo le espressioni facciali;

 Comportamenti limitati o ripetitivi e interessi: alcuni esempi di questo dipendono dalle routine e rituali, come mangiare le stesse cose o voler mantenere lo stesso programma o fare un percorso simile. Le persone autistiche possono avere interessi intensi come voler parlare solo di treni o film preferiti. Talvolta può verificarsi che alcuni bambini incuriositi da atteggiamenti insoliti dei loro coetanei in classe, possano chiedere perché fa così e che cosa è in realtà l’autismo. I bambini sono più abili nel comprendere senza lunghi e difficili giri di parole: l’autismo è un disturbo del neuro sviluppo, dura per tutta la vita, sappiamo che ha un po’ di origine genetica, che non è prodotto da cattiva alimentazione o abitudini o esperienze particolari. Non è causato dal cattivo lavoro genitoriale e autistici si nasce, non si diventa.
Spiegare ai bambini che l’autismo è uno spettro di comportamenti e ogni persona autistica è diversa da un’altra in termini di insorgenza, gravità e tipi di sintomi in modo chiaro e semplice, è solo un atto doveroso di rispetto della dignità del bambino autistico e di tutta la classe che può diventare squadra terapeutica verso il compagno, coadiuvando il lavoro dei veri esperti terapisti. Solo entrando in contatto con il compagno autistico, imparando a conoscere il suo mondo e la sua realtà, forse si potrebbe costruire quel ponte importante che unisce e fortifica le relazioni positive: ciò è possibile solo attraverso la conoscenza dello spettro dell’autismo e se non si parla ovunque e sempre di ciò che è ignoto agli occhi degli altri, mai si abbatte il muro della paura e della dis-conoscenza o dis-informazione.

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5 Commenti

  1. Non è sempre facile parlare di malattie ai bambini soprattutto se non sono visibili, ancor più difficile parlare di disabilità. Quest’anno mi è capitato in classe di avere un bambino autistico molto bello e ben curato e spiegare i bambini che si trattasse di un compagno di classe neuro diverso è stato qualcosa di molto difficile per me. Proprio perché l’autismo non è visibile, i compagni di classe non riuscivano a capire il perché proprio quel compagno si comportasse in un determinato modo. Poi con il tempo abbiamo imparato ad entrare nel suo mondo in punta di piedi e rispettare il suo autismo e oggi siamo un gruppo ben affiatato e tutti mi aiutano a gestire questo bambino in classe quando ha i suoi comportamenti problema. Dottoressa lei è una risorsa importante per noi ed è sempre un piacere seguirla.

  2. Bellissimo questo quesito… e stupefacente la risposta … ovvio che i bambini e le bambine debbano sapere tutto come gli adulti e le.adulte…
    Nei dovuti modi e con la giusta terminologia ….

  3. Congratulazioni per questo articolo molto interessante.
    Bisogna comunicare sempre con i bambini, perché oggi sono più intelligenti, da subito bisogna entrare in sintonia con loro e trasmettergli cosa sono e cosa possono trovarsi di fronte.

  4. Quando si tratta di disabilità o di malattia, parlare con bambini magari troppo piccoli potrebbe essere difficile: tuttavia secondo me bisogna trovare la formula adatta perché con i bambini bisogna essere chiari. Io a scuola ho avuto un bambino che poi si è ammalato di leucemia e quando è tornato in classe senza capelli, ho spiegato agli alunni cosa stesse capitando al compagno di classe e tutti hanno capito che esistono delle malattie di cui si possono ammalare anche i bambini. Alla fine abbiamo creato un importante rete affettiva intorno a questo mio alunno che fortunatamente oggi sta bene ha superato il periodo negativo della malattia

  5. Cara dottoressa secondo me i bambini sono più capaci di noi adulti a comprendere qualsiasi cosa si possa loro comunicare, non hanno pregiudizi come lei ha scritto e soprattutto non sono prevenuti come gli adulti. E bisogna parlar chiaro i bambini perché sono in grado di comprendere tutto anche meglio degli adulti

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