di Mariantonietta Losanno
“Lei è la vagabonda”, dice il padre per definire Cáit. Una bambina di nove anni e di poche parole – quelle necessarie – che si nasconde continuamente, costruendo dei (piccoli) rifugi. Può essere l’erba alta ad aiutarla a non farsi trovare, o gli ambienti stretti, come lo spazio sotto al suo letto, sfuggendo, così, anche ai rimproveri di sua madre. Ma perché nascondersi, da chi, da cosa? Prima di tutto dall’indifferenza dei genitori e delle sorelle che la cercano solo per redarguirla, ignorando i segnali (evidenti) del suo disagio interiore. A loro si aggiunge la scuola, che non è in grado di incoraggiare i suoi timidi tentativi di lettura ad alta voce o – tanto meno – di fare in modo che si integri con gli altri bambini. Forse è il padre quello di cui Cáit sembra avere più paura, che al disinteresse aggiunge l’aggressività, in qualsiasi contesto in cui si trovino.
Arriva poi l’estate e la madre, in attesa dell’ennesimo figlio, decide di mandarla da una coppia di lontani parenti. Persone che la bambina non conosce, con cui non ha familiarità, ma con i quali dovrà convivere, non si sa per quanto tempo. I due la accolgono (nonostante la titubanza iniziale di lui) in casa, mostrandole come si vive in una famiglia, come ci si ama e come ci si aiuta. Il suo essere introversa, infatti, diventa la sua particolarità che – anzi – la rende speciale, accrescendo il valore delle sue (poche) parole. È quello che si fa in una famiglia: si lavora insieme sugli aspetti problematici, tutelandoli, non “esponendoli” e mortificandoli. Cáit inizia, allora, a scoprire, a condividere. A concedersi un affetto inedito, che le consente di non doversi più rendersi invisibile o nascondersi.
“Ho voluto dare forma all’esperienza di questa bambina, questo è l’interesse principale del film” […] “I legami familiari, la questione della crescita emotiva e psicologica e, soprattutto, il fenomeno del dolore e la sua capacità di modellarci. Da una prospettiva formale, il racconto (ambientato nell’Irlanda degli anni Ottanta) è stato stimolante: una narrazione in prima persona, al presente, attraverso gli occhi di una bambina”, ha raccontato Colm Bairéad sulla sua struggente opera prima. Questa connotazione “struggente”, però, può lasciar pensare che la pellicola insista eccessivamente sulla componente emotiva, calcando la mano. In realtà, “The Quiet Girl” (candidato all’Oscar per il miglior film internazionale) non ostenta nulla, non “si rifugia” in banali cliché o facili sentimentalismi: mette, piuttosto, in armonia le parole. Scorre ad un ritmo lento, ma ininterrottamente. Cáit impara a muoversi ad un passo più sicuro, riuscendo persino a correre, esercitandosi un po’ alla volta. E la sua (prima ma nuova) famiglia si sintonizza con il suo silenzio che, pian piano, diventa sempre più comprensibile. La bambina depone le sue “armi” (l’introspezione e la fuga) per iniziare a guardarsi senza subire i giudizi di suo padre o delle sue sorelle. Comincia a “specchiarsi”, allora. Proprio nella sua nuova casa c’è, infatti, uno stagno profondo, che nasconde un segreto, in cui Cáit e Eibhlín (cugina di sua madre che la sta ospitando insieme a Seán, il marito) vanno spesso, ma avvicinandosi con cautela. Un giorno, però, quello specchio d’acqua riflette un’immagine eloquente di un affetto non ritrovato, ma acquisito per la prima volta: le due si tengono per mano e si osservano insieme, come se lo fossero sempre state.
Le armi di Bairéad, come quelle di Cáit, sono i piccoli gesti, quelli tanto frequentemente sminuiti e ignorati. “Mi ha sempre affascinato quel cinema che non fa troppo affidamento sui dialoghi, e in generale credo sia un istinto naturale, per un regista, il cercare di raccontare storie innanzitutto con le immagini. Naturalmente esistono ottimi film “verbali”, ma la mia personale sensibilità va in un’altra direzione”, ha chiarito in un’intervista. Mantenendo un passo lento, “The Quiet Girl” indugia su momenti piccoli, su sguardi disorientati, sul senso dell’appartenenza ad una famiglia. Rispettando i “vari” silenzi: quello del dolore, della paura, della vergogna. “Ci facciamo un bel pianto, ti va?”, chiede Eibhlín a Cáit, riferendosi al tagliare le cipolle. Eppure, in quella proposta così chiara e diretta, è implicito il rispetto verso la sofferenza che spesso è necessaria e salvifica. Bairéad non colma i vuoti, anzi, li “illumina”, mettendoli in scena con autenticità. Senza nascondersi, aderendo al vissuto degli spettatori, connettendosi con i loro silenzi.
È una semplicità preziosa quella di “The Quiet Girl”, da custodire. Non ci sono regole quando ci si dimostra affetto, può manifestarsi anche solo nella condivisione del cibo, ad esempio. Ed è così che Seán, senza neppure guardarla, lascia un biscotto sul tavolo a Cáit, intenta a tagliare le patate. Un gesto piccolo, eppure così forte, che non necessita di essere accompagnato da parole superflue. Dove non ci sono segreti non c’è vergogna, dice Eibhlín. È così che l’opera prima di Colm Bairéad, adattamento del romanzo “Foster” di Claire Keegan, ci insegna ad accettare tante piccole verità, non addolcite per compiacere il pubblico. Liberando le parole intrappolate dentro le cose, ma lasciando che altre restino taciute. Accogliendo le vulnerabilità, i dolori, le insicurezze. Senza spezzare nulla, ininterrottamente.