“UN EROE”: UN “POEMA SENZA EROE”, COME QUELLO DI ANNA ACHMÀTOVA

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di Mariantonietta Losanno 

Asghar Farhadi chiarisce (ancora) come una determinata condotta possa essere ad un tempo verissima e ad un altro inesistente, indicando una direzione attraverso molte strade. È ancora un dilemma morale, infatti, quello che viene descritto in Un eroe, presentato in concorso al 74º Festival di Cannes, dove ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria. 

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Rahim Soltani ha due giorni di permesso dal carcere, dove si trova da tre anni per aver contratto un debito con l’ex cognato che non ha potuto onorare. È l’occasione per vedere la sua nuova compagna – che sogna di sposare – e per cercare di recuperare parte dei soldi da restituire al suo debitore. Si dirige, allora, verso un compro oro per vendere alcune monete e trova accidentalmente una borsa piena d’oro. Quasi come se fosse un miracolo, un modo per riscattare la sua condizione e riabilitare anche la sua immagine. In quel momento, però, si insinua il dubbio: cosa è più giusto fare? Restituire il denaro al suo legittimo proprietario o godere di quel regalo provvidenziale? Rahim deve già fare i conti con altre “vergogne” (non può, ad esempio, parlare della sua nuova relazione fino a quando non saranno sposati) e non vuole aggiungerne altre; decide, allora, di denunciare il ritrovamento della borsa, lasciando i suoi recapiti telefonici. Ma non i suoi personali, quelli del carcere: sono proprio queste minime disattenzioni la causa della sua rovina. La proprietaria si fa viva e Rahim viene promosso al rango di eroe virtuoso dall’amministrazione penitenziaria, che decide di cavalcare la notizia,  tacendo sui recenti casi di suicidio in cella. C’è chi vuole intervistarlo, chi sostiene di dover imparare da lui, chi lo ringrazia, chi lo idolatra. Viene consacrato come un eroe, ma a quale costo? Vuole realmente essere ritenuto un detenuto modello e proteggere quello che avviene realmente in carcere? 

%name “UN EROE”: UN “POEMA SENZA EROE”, COME QUELLO DI ANNA ACHMÀTOVATutti lo sanno e Farhadi più di tutti: essere considerato un eroe nazionale comporta le sue responsabilità. Lo stesso regista, grazie ai due Oscar per il miglior film internazionale (per Una separazione nel 2012 e per Il cliente nel 2017), ha avuto un successo tale da doversi muovere con cautela. Proprio perché altri suoi colleghi (come Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof) sono stati arrestati, condannati o è stato vietato loro di lasciare il paese, la posizione di Farhadi è stata definita “pro governo”. Da qui, allora, è stato necessario spiegare – o giustificare, un po’ come Rahim – il suo dissenso: «Come può qualcuno associarmi a un governo i cui media estremisti non si sono risparmiati per distruggermi, emarginarmi e stigmatizzarmi?». Bisogna, quindi, porre attenzione verso ogni minima parola il cui significato potrebbe essere alterato facilmente. E questo riguarda Farhadi tanto quanto (il suo) Rahim. Il regista, infatti, in riferimento alle accuse ricevute, aggiunge: «Le persone che non conoscono il mio paese potrebbero aver frainteso, ma gli iraniani l’hanno capito chiaramente. Il messaggio era rivolto ai miei connazionali». Appunto. Tutto dipende da come ogni comportamento viene letto – attraverso, cioè, quali criteri morali e immorali – e da quanto viene indagato. Non si deve andare necessariamente alla ricerca dell’eroe – né dell’errore – perduto: non ne abbiamo bisogno, e non potrebbe mai esserci una figura universalmente riconosciuta. Quando ogni azione viene posta sotto i riflettori, anche la minima distrazione può costare la perdita di credibilità: Rahim, avendo “protetto” la sua compagna e essendosi assunto la responsabilità di aver trovato i soldi ha segnato – in modo inconsapevole ma irreversibile – il suo futuro. Tutto è stato messo in discussione e tutto è stato analizzato morbosamente. 

Non c’è un’unica e sola verità. Quello di Farhadi si presenta, allora, come un racconto (o un poema) senza eroe, così come titola la raccolta di poesie di Anna Achmàtova.