“WINTER BOY”: LA COGNIZIONE – E L’URGENZA – DEL DOLORE 

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di Mariantonietta Losanno 

Forse non ci si conosce a fondo se non nel dolore, soprattutto in quello bambino, quando ci si avverte – ad un tratto – così divisi, così tanto parziali. Per Lucas la vita «è diventata un animale selvaggio», a cui non riesce più ad avvicinarsi senza farsi mordere. Ad aggredirlo sono le idee, in cui non si riconosce più e che avverte come una minaccia. Per potersi difendere bisogna riunire tutto (il dolore) e ricominciare da capo; rivedere quello che è successo, tornare a quando si era ancora intatti. È l’unico modo per non perdersi. 

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C’è un prima e un dopo nella storia di Lucas, come in ogni indagine sulla sofferenza. C’è un’immagine dai contorni nitidi e poi ce n’è un’altra sconosciuta e potenzialmente senza limiti né definizioni. È un’intrusione – o meglio, più di una – quella che mette in scena Christophe Honoré in Winter Boy (Le Lycéen), concentrandosi a pieno sui sentimenti. La prima intrusione è – naturalmente – quella della disperazione, che Lucas conosce a partire dalla morte del padre, scoprendo (dopo) di averne avuto traccia anche prima che irrompesse in modo così violento con l’elaborazione del lutto. Poi ci sono altre – e diverse – intrusioni, nel dolore altrui, che causano un’angoscia ancora più grande e ingovernabile, o in qualche modo si annullano scontrandosi ed unendosi. Lucas s’imbatte nella sofferenza della madre e del fratello, espresse in modalità differenti dalla sua. Ed è qui che il regista focalizza l’attenzione, su quello che avviene quando bisogna farsi forza l’uno con l’altro, ma istintivamente si farebbe meglio a lasciarsi ampi spazi per espandere la propria angoscia liberamente. Non è vero, infatti, che il dolore unisce; senz’altro attrae altro dolore – come una calamita – ma non lega in modo immediato così come spesso si pensa. Non ci sono sempre le condizioni affinché questo avvenga. Lucas e il fratello non si respingono, ma neppure si fortificano. Tentano (timidamente) di supportarsi, ma non sono pronti (ancora) a confrontarsi. «Puoi parlare di papà con me», dice uno all’altro, come per autorizzarlo. Allo stesso modo, la madre, si concede il permesso di essere ancora felice, nonostante non ci sia più il marito. Se lo domanda e (implicitamente) si dà una risposta, iniziando a sorridere. Da un lato si avverte il bisogno di autorizzarsi, dall’altro la necessità di non abusarne, “approfittando” del dolore per lasciarsi andare, annidandosi contro il vuoto, legittimando ogni azione in funzione del fatto che è giusto compierla per compensare quello che si prova. O quello che non si prova più. Allora ci si spinge oltre, perché, a cambiare è anche la spazialità: non ci sono più gli stessi limiti, né gli stessi divieti o gli stessi vincoli morali. 

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Presentato al Torino Film Festival nella sezione Fuori Concorso, Winter Boy (disponibile in streaming su Mubi), è l’anatomia di una scomparsa – come quella di Hisham Matar – di un’assenza che pesa sul petto, di cui si impara ad avere cognizione con il tempo, sottraendosi al dolore o legandosi ad esso, come se fosse un alleato e non un nemico. Il regista attinge dalla sua stessa esperienza, mettendo in scena tutta la brutalità e tutta la paura che ha avvertito, senza fare sconti. L’ispirazione è stata L’adolescente di Dostoevskij, in cui il narratore prende in carico il racconto all’inizio del romanzo, ma allo stesso tempo non è in grado di occuparsene. Per Christophe Honoré è necessario analizzare non solo il tormento passato, ma raccontarlo in relazione al suo essere invalidante nel presente. Ad un certo punto, allora, è obblogatorio prendere una decisione, e diventa persino liberatorio scegliere il dolore. Trasformarlo in altro, persino sublimarlo, o aggredirlo, portarlo altrove. «Fuori dalla portata della nostra presenza/nel paradiso perduto della probabilità./Altrove./Altrove./Come risuonano queste piccole parole.», scriveva Wislawa Szymbroska. E da questi – come da altri – ragionamenti si è sviluppata anche la riflessione di Krzysztof Kieślowski nel suo cinema “a colori”. 

Christophe Honoré “si affida” alle parole attente e lucide di Andrea Laszlo De Simone e alla sua Conchiglie, che ripercorre il distacco e la fine, concedendo alla sofferenza una presenza necessaria.  Ci si rende conto che non serve a niente mettersi al riparo dal vento, rintanarsi in se stessi: siamo solo conchiglie, niente potrà tornare a quando il mare era calmo. Ci si evolve, assumendo una forma nuova, e con il tempo si impara a (ri)conoscersi.