OLTRE LE CAUSE GENETICHE DELL’AUTISMO, QUELLE AMBIENTALI

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Oltre alle cause genetiche, molti ricercatori ritennero che tra le cause dell’autismo vi siano anche i fattori ambientali. Questa ipotesi deriva direttamente dallo studio già citato di Rutter-Folstein sui gemelli, che ha rilevato che nel 20% dei gemelli monozigotici l’autismo è presente in uno solo dei due gemelli: si tratta di una prova indiretta dell’esistenza di altri fattori eziologici. Sulla natura di questi fattori di rischio ambientale niente è ancora chiaro. Tra le cause più gettonate vi è l’esposizione delle madri durante la gravidanza ad infezioni virali o a sostanze chimiche. In genere l’uso di farmaci durante la gravidanza è risultato un fattore significativo di rischio nell’insorgere del disturbo autistico. Ad esempio il talidomide, un farmaco utilizzato negli anni ’60 per alleviare i malesseri della gravidanza, ha avuto effetti devastanti sui feti. Nei bambini esposti a questo farmaco nel periodo prenatale, la probabilità di risultare autistici era 50 volte superiore a quella della popolazione.

Il collegamento tra questi fattori eziologici e l’insorgere del disturbo autistico potrebbe riguardare la loro capacità di interagire con la quantità di dopamina presente in alcune strutture cerebrali. Un’alterazione del sistema dopaminergico può essere il risultato di vari fattori: farmaci, droghe, temperature corporee elevate, ormoni androgeni e lo stress. L’associazione tra autismo e testosterone è suggerita dal fatto ce questo è un ormone maschile e l’incidenza dell’autismo nei maschi è quattro volte superiore a quella nelle femmine. Si è ipotizzato che l’iper-attivazione del sistema dopaminergico sia trasmissibile dalla madre al figlio anche senza un contributo necessario di basi genetiche, ma attraverso meccanismi epigenetici (che si attuano nel corso dello sviluppo). Fattori di rischio genetico e ambientale nell’Autismo non devono essere considerati necessariamente in modo separato: è possibile che una particolare combinazione di geni conferisca ad un individuo solo una suscettibilità per l’autismo e che sia invece la presenza di uno o più fattori ambientali a trasformare quella potenzialità nella comparsa conclamata dei sintomi tipici della malattia.

IL GESTO DI INDICARE: PERCHE’ IL BAMBINO AUTISTICO NON INDICA?

Significativo è l’insieme di esperimenti condotti per spiegare le origini e le funzioni del gesto di indicare nei bambini piccoli. Questo, definito come l’estensione simultanea del braccio e del dito verso un oggetto, “L’attenzione condivisa non solo comporta la coordinazione dell’attenzione in riferimento ad un oggetto o evento, ma implica anche la trasmissione di affetto, la quale riflette presumibilmente qualche aspetto della risposta del bambino all’oggetto o evento…essa ha lo status di un commento riguardo a qualcosa di cui si è avuta esperienza […] viene inoltre esemplificata dalla consapevolezza cosciente di ciò che si sta attualmente percependo. Se si è coscienti di ciò che si vede significa che si è impegnati nel pensiero concettuale”. Indicare è stato uno dei gesti convenzionali maggiormente studiati nella letteratura sulla comunicazione infantile sin da Vygotskij. Quest’ultimo ritenne che l’indicare fosse un gesto strumentale derivante dal fallimento dei tentativi di raggiungere un oggetto da parte del bambino. La funzione comunicativa di tale gesto può essere duplice: per richiedere un oggetto desiderato – intenzione richiestiva –, o per condividere con altri l’interesse o l’attenzione su un evento esterno – intenzione dichiarativa –. Il gesto di indicazione con funzione richiestiva compare circa tre mesi prima di quello con funzione dichiarativa, e le differenze non sarebbero solo funzionali, ma anche strutturali: mentre l’intenzione richiestiva riflette semplicemente un’aspettativa del bambino circa il comportamento dell’adulto, l’intenzione dichiarativa implica l’identificazione dell’interlocutore come soggetto intenzionale, capace di intrattenere relazioni psicologiche con l’ambiente esterno, come, ad esempio, provare interesse, commentare e condividere un’esperienza. Già Werner e Kaplan (1963) sottolinearono la relazione esistente tra la produzione del gesto di indicazione e la capacità di denominazione: il primo, infatti, può essere considerato un’azione referenziale prodotta in un contesto sociale e, in questo senso rappresenta un primo passo verso lo sviluppo simbolico. Sin dalla sua comparsa, il gesto di indicare è prodotto in contesti comunicativi, associato a forme di controllo visivo sull’interlocutore. Mentre a 12 mesi i bambini guardano il loro interlocutore immediatamente dopo aver indicato, a 16 mesi tendono a rivolgere lo sguardo all’interlocutore immediatamente prima del gesto; questo passaggio suggerisce un riconoscimento importante della relazione tra percezione, attenzione e interesse come stati psicologici. Mentre nel primo caso l’attenzione è rivolta all’interlocutore in quanto agente o mezzo da utilizzare per raggiungere un certo scopo (funzione richiestiva), nel secondo caso il bambino usa l’oggetto come mezzo per ottenere l’attenzione e la considerazione dell’interlocutore. Nel primo caso il bambino ha intenzioni, cioè è capace di formulare scopi e di selezionare i mezzi adeguati per raggiungerli; nel secondo caso il bambino ha intenzioni comunicative, intende cioè influenzare lo stato interno dell’adulto che interagisce con lui catturando la sua attenzione. La relazione diadica che caratterizza il rapporto genitore – bambino nei primi sei mesi di vita è ampliata dal riferimento ad oggetti o eventi che si trovano oltre il confine degli scambi interpersonali duali. In tal modo le loro interazioni diventano gradualmente triadiche, nel momento in cui l’attenzione concentrata sull’oggetto è inserita in contesti comunicativi di natura sociale.

Ma perché il bambino autistico non indica?

Differenze notevoli sono presenti tra bambini autistici e bambini con sviluppo tipico nell’uso di gesti per scopi comunicativi e per la condivisione del piacere. Il fare ciao con la manina, il portarsi il dito sulla guancia per indicare che qualcosa è buono sono gesti molto precoci. Ma dalla fine del primo anno di vita i bambini con sviluppo tipico cominciano ad usare un gesto particolarmente importante per lo sviluppo della intersoggettività e del linguaggio. Il gesto dell’indicare – comunemente detto pointing – rappresenta infatti una tappa fondamentale dello sviluppo e compare di solito assieme alla capacità di mostrare (cioè offrire un oggetto ad un’altra persona senza darglielo veramente). Differentemente dalle azioni strumentali, come il dirigere la mano e l’afferrare, questi gesti non sono fatti per raggiungere meccanicamente l’obiettivo ma sono adeguati per comunicare questo obiettivo ad un’altra persona. Nella maggior parte dei casi essi sono accompagnati dallo sguardo del bambino al partner, esclusivamente o in alternanza con il guardare all’oggetto. L’alternanza dello sguardo tra l’oggetto e il partner indica che il bambino è consapevole degli effetti che i suoi segnali avranno sul partner e che l’obiettivo è quello di portare l’attenzione dell’altro verso l’oggetto che ha attratto la sua attenzione. Il puntare con il dito indice è stato uno dei gesti più studiati poiché si tratta di un gesto esclusivo degli esseri umani, universale e precursore del linguaggio. Bambini con sviluppo tipico, in condizioni controllate, testati a 11 e 14 mesi di età mostrano di essere capaci di usare il pointing richiestivo o imperativo (cioè l’indicare per richiedere un oggetto) prima del pointing dichiarativo (cioè il pointing per condividere l’attenzione per un oggetto) che è acquisito tra i 12 e i 18 mesi. L’esempio più tipico di pointing dichiarativo è quello del bambino che se vede o sente passare un aereo indica col dito indice l’aereo e poi guarda l’adulto. Questa evidenza è coerente con l’ipotesi che i due tipi di pointing non sono sottesi dalle stesse capacità sociali e cognitive e possono essere meglio compresi nei termini delle loro differenze. Mentre il pointing imperativo mostra un aspettativa circa il funzionamento dell’essere 39 umano come agente causale, il pointing dichiarativo implica la capacità di voler influenzare lo stato attentivo di un’altra persona, e al tempo stesso di percepire l’altra persona come capace di comprendere le proprie intenzioni comunicative. Diversi studi hanno mostrato che i bambini con autismo non usano i gesti per scopi dichiarativi o per condividere esperienze, mentre i gesti imperativi o strumentali sono relativamente preservati nel loro repertorio. Così, l’assenza del pointing dichiarativo è considerato come uno dei più importanti segni di autismo nei bambini nel loro secondo anno di vita, in quanto espressione finale delle difficoltà nello sviluppo dell’attenzione condivisa e dell’intersoggettività secondaria. Una semplice prova per elicitare la produzione del pointing dichiarativo può essere introdotta nei bilanci di salute dei bambini di 18 mesi.