“FILM” DI ALAN SCHNEIDER E “DONDOLO” DI BECKETT: “MORIRE É SOLO NON ESSERE VISTI”

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di Mariantonietta Losanno 

%name “FILM” DI ALAN SCHNEIDER E “DONDOLO” DI BECKETT: “MORIRE É SOLO NON ESSERE VISTI”Un’oscillazione immobile, quasi impercettibile, che diventa reale se ripetuta. E che può rappresentare il punto di contatto tra due opere: Film (1964), scritta da Samuel Beckett e diretta da Alan Schneider e Dondolo (1980), dramma breve scritto – ancora – da Beckett. 

È Buster Keaton – più nello specifico, il suo sguardo – a rappresentare (nell’unico contribuito cinematografico lasciato dal maggior esponente del teatro dell’assurdo) il dondolio fisso, al punto da doversi tastare il polso per sentire il battito. Si trova in un quartiere degradato di una grande città, in fuga, non si sa precisamente da cosa. Si muove nervosamente, nascondendosi, fuggendo. Entra in un palazzo e si ferma sul pianerottolo, poi apre una porta: c’è una stanza (apparentemente) vuota, dove inizia ad ispezionare tutto. Qualsiasi oggetto può diventare minaccioso (persino lo schienale di una sedia, o una foto appesa al muro), ma più di tutto uno specchio: il pericolo maggiore, quasi un avversario, che non gli dà tregua. È come perseguitato, da uno sguardo invadente, che lo vuole necessariamente immortalare. L’azione si ripete, rendendo ancora più estenuante il desiderio di fuggire. Elementi caratterizzanti – quelli della ripetizione e della dissociazione del sé – della poetica beckettiana; ci si ritrova, cioè, spesso a replicare movimenti vuoti, costantemente in attesa. Ancora.

“tempo dì smetterla

di star seduta alla finestra

quieta alla sua finestra

sua sola finestra

di fronte ad altre finestre 

altre sole finestre”

%name “FILM” DI ALAN SCHNEIDER E “DONDOLO” DI BECKETT: “MORIRE É SOLO NON ESSERE VISTI”Il Dondolo di Beckett si muove allo stesso modo, restando allo stesso posto. Si sposta come per inerzia, senza imprimere alcuna intensità. Raccontando una rassegnazione (più che una presa di coscienza): quella di una donna esausta, che si adagia, assecondando l’oscillazione.  “[…] morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto”, recita una poesia di Fernando Pessoa. È la morte, quindi, la modalità per scomparire? L’unica possibilità per svincolarsi da uno sguardo ossessivo e opprimente? Un’idea di “finire” che – in qualche modo – richiama il dondolare, come un qualcosa che lentamente perde potenza, allentando il movimento, fino a fermarsi. E non servono necessariamente le parole per rappresentare questa sconfitta

È l’essere coscienti di sé a provocare paura. “Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. […] Questo è ciò che si crede, ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere o false. Solo a teatro il problema si rivela importante e forse neanche lì”. Queste le parole del monologo (ripetuto due volte, per tornare sul valore assunto dalle cose reiterate) in Persona (1966). Dalle immagini alle coscienze: è così che procede Ingmar Bergman per descrivere lo straniamento (brechtiano) dell’individuo.  

È necessario non essere percepiti per non esistere? Basta coprirsi gli occhi, dissimulare? Beckett torna al punto di partenza, ancora. Come a voler insistere – servendosi del concetto di ciclicità – su un qualcosa di incontrovertibile, da cui non si può scappare. Neppure rasentando i muri tentando di aderirvi – al punto di perdere spessore – o evitando gli specchi. 

Tutto si ripete, incessantemente, inutilmente

 

“e si lasciò dondolare dondolare

a occhi chiusi

socchiudendo gli occhi

lei per tanto tempo tutta occhi occhi famelici

tutto intorno

alto e basso

avanti e indietro

alla sua finestra

per vedere

essere vista

finché alla fine

chiusa di un lungo giorno”