“VERONIKA VOSS”: L’ESTETICA DEL PESSIMISMO DI RAINER WERNER FASSBINDER

0

di Mariantonietta Losanno 

%name “VERONIKA VOSS”: L’ESTETICA DEL PESSIMISMO DI RAINER WERNER FASSBINDERVeronika si specchia, guardando la sua distruzione. Un giorno era splendida, seducente, unica al mondo. Era la protagonista assoluta della sua vita e del suo lavoro. Adesso è (solo) l’immagine inquietante del fascino per qualcosa di perduto, di cui non è rimasto più nulla. Il suo è un sogno regressivo, non attuabile; tornare quella che era – riconquistando il suo mistero– è un’ambizione da perdenti. E, così come nello sport, nella vita si vince e si perde. Veronika ha senz’altro perso.

Robert Krohn, cronista sportivo, la incontra per caso e ne rimane affascinato, anche se non può fare a meno di notare il suo strano e nevrotico comportamento. Henriette, compagna di Robert, è in parte divertita e in parte preoccupata da questo incontro; quest’ultimo, però, è sempre più invischiato sia sentimentalmente che professionalmente. Segue, infatti, Veronika sul set di un film in cui ha ottenuto una piccola parte. Ma anche la rentrée è un disastro. Finalmente la verità: il declino dell’attrice, lo sgretolamento del suo matrimonio, il vizio del bere, l’assuefazione alla morfina. L’unica possibilità – sia per Veronika che per Robert – è arrendersi.

“È il mio mestiere commuovere”, dice Veronika in riferimento a una delle sue interpretazioni, fiera del suo potere. Il suo mestiere d’attrice le ha consentito di inventare – a seconda dei contesti – stati d’animo differenti, mantenendo, però, una distanza. Quando quel fascino svanisce, le invenzioni sono soltanto frutto dei suoi deliri: Veronika inventa il suo Dolore, incapace di comprenderne l’essenza, come per la gioia. E viene annientata. Il suo Dolore esplode, seguendo le leggi che lei stessa ha stabilito. Fassbinder si serve della sua Veronika per comprendere – a partire da un punto di vista femminile – le aberrazioni cui l’amore è costretto dagli schemi del comportamento sociale. Ed infatti, la prima cosa che, banalmente, richiama l’attenzione nella pentalogia dedicata al dopoguerra è il fatto che (quasi) tutti i film realizzati portano nel titolo il nome di una donna: Lola, Il matrimonio di Maria Braun, Lili Marleen. Questo perché Fassbinder riconosce obiettivamente che la società – appoggiata dalla morale, dalla cultura e dall’economia – toglie alla donna ogni libertà e ogni potere di autodeterminazione. Ma non compiange questo destino: ne coglie le conseguenze e le implicazioni generali. La donna fassbinderiana innanzitutto vuole: Veronika, infatti, vuole tornare quello che è stata un tempo, riconquistare la sua luce. Perché, come nel Cinema, anche nella vita i due segreti sono la luce e l’ombra, i lati chiari e i lati oscuri.

%name “VERONIKA VOSS”: L’ESTETICA DEL PESSIMISMO DI RAINER WERNER FASSBINDERÈ ne Il matrimonio di Maria Braun che compare il tema-base dei film successivi: la realizzazione del sogno. Dal punto di vista dei personaggi, il loro personale sogno sentimentale; dal punto di vista storico, la ricostruzione “miracolosa” della Germania dalle macerie e dalle ceneri della guerra. Veronika incarna proprio i due concetti: è sospesa tra il suo passato di stella del cinema in un contesto che tenta (invano) di recuperare il suo splendore. Non ci sono poteri in grado di invertire la rotta del suo disfacimento – così come di quello della Germania – perché Veronika rimane intrappolata nelle sue memorie di gloria. Come la frase di un vecchio film, irripetibile, in qualche modo “persa” nell’istante in cui è stata pronunciata per la prima volta.