“DAGUERRÉOTYPES”, AGNÈS VARDA: CRONACHE D’IMMOBILITÀ, MOMENTI VUOTI E SOGNI MANCATI

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di Mariantonietta Losanno

%name “DAGUERRÉOTYPES”, AGNÈS VARDA: CRONACHE D’IMMOBILITÀ, MOMENTI VUOTI E SOGNI MANCATISembra l’inizio di una favola: “Tutto è cominciato a causa di Au Chardon Bleu, un insolito negozio vicino casa mia, in Rue Daguerre”, ci dice Agnès Varda. Sono le vetrine ad averla attratta, o l’aria del passato che si respira al suo interno, come un profumo di inventario interrotto. Lì ci sono gli stessi oggetti, da venticinque anni, fissi e immobili, come se il tempo si fosse fermato. Eppure – in qualche modo – le cose e le persone hanno subito una loro evoluzione, ed è proprio questo cambiamento (non necessariamente inteso come miglioramento, ma solo come sviluppo) che Agnès indaga, assumendo il solito sguardo poetico. Ci vengono presentati tutti i clienti abituali dei negozi della zona; alcuni vengono intervistati, altri ritratti – come se si stesse davvero dipingendo – nelle loro conversazioni quotidiane, apparentemente semplici, ma estremamente profonde. “La memoria si sta indebolendo”, dice una persona anziana a quella che sembra essere una sua potenziale amica o semplicemente una coetanea, che le risponde “Succede anche a me”, come per confortarla. Insieme, poi, si ricordano a vicenda la loro età, come per giustificare la perdita di lucidità e farsi coraggio, sapendo di non essere sole.

“La signora Chardon Bleu, con la mitezza di un prigioniero, mi affascina ancora di più del negozio, dove suo marito fa i profumi che poi vende al banco”, racconta Agnès, mentre vengono mostrati i loro volti assorti e schivi. Sono sguardi silenziosi, fermi come gli oggetti che non si sono mai spostati dal negozio, testimoni a loro volta della staticità dei loro proprietari. Non è la prima volta, però, che Varda filma il tempo; in Cleo dalle 5 alle 7, infatti, fa coincidere l’unità temporale della storia con la durata cinematografica, soffermandosi sulla trasformazione che si concretizza in quelle due ore. L’indagine sul tempo ci riporta, poi, a Deleuze, che ha sviluppato ne L’image-temps (1985), attraverso continui rimandi ad altri concetti, altri autori, altre sfaccettature. È evidente (e se anche non lo fosse non sarebbe questo il contesto per esaurire tutti gli aspetti del fenomeno) come sia complessa un’ipotetica ricostruzione del tempo; per questo, Peter Pál Pelbart ha accostato la figura di Deleuze al personaggio del racconto di Jorge Luis Borges, El jardin de los senderos que se bifurcan (1941) – ripresa poi da Deleuze stesso in Logique du sens (1969) – Ts’ui Pên, governatore di Yunnan che rinunciò all’incarico e al potere per scrivere un romanzo con l’intento di ricostruire il labirinto in cui ogni uomo si perde.

%name “DAGUERRÉOTYPES”, AGNÈS VARDA: CRONACHE D’IMMOBILITÀ, MOMENTI VUOTI E SOGNI MANCATIAgnès Varda queste riflessioni labirintiche le approfondisce lasciando la parola ai momenti morti e ai minuti vuoti, domandosi da dove provenga quel fascino e quella bizzarria, nonostante – in parte – resti tutto uguale. Ogni mattina, infatti, si alza il sipario sul teatro quotidiano. Il repertorio, però, è arcinoto: i protagonisti sono il pane, il latte, gli articoli di ferramenta, la carne e la biancheria.  Basterebbe spostarsi all’altro capo di Rue Daguerre, al mercato, dove ci sono venditori di giornali, politici, militanti, discussioni. Lì, invece, non c’è niente: il marciapiede è neutro, nessuno si occupa di politica, nessuno ne parla. Quello di Agnès Varda, però, è un cinema di idee e non di sovrastrutture, di piccoli mondi che – ricomposti – ne compongono uno più grande. Un cinema che lavora sui volti, si interroga sulla bellezza e indaga i sogni silenziosi, inespressi. “Per chi si ritiene normale, sognare è una malattia”: alcuni commercianti sognano solo cose che riguardano la loro attività, per sognare, invece, non hanno tempo. Rifiutano le emozioni, restando – spesso – prigionieri della loro vita.

Daguerréotypes è il ritratto di una Parigi antieroica, dimessa e lontana da ogni celebrazione, priva di scorci di patinata bellezza. Ci ricorda quella di Edward Hopper, che per tre volte si è recato nella capitale francese per dipingere con assoluta libertà e solitudine, senza condizionamenti e senza entrare – al pari di altri giovani aspiranti artisti americani – in qualche atelier. Come dalle figure di Hopper, così dallo sguardo di Varda emerge una sottile inquietudine, immersa in un contesto urbano e familiare, dove emerge tutta la malinconia, il silenzio ostinato, la ricostruzione di una memoria indelebile ma nebbiosa.