Anni settanta. Ron Stallworth, poliziotto afroamericano di Colorado Springs, riesce ad infiltrarsi nel Ku Klux Kan, la setta razzista americana che teorizza la superiorità dei bianchi sui neri. Stalloworth entra in contatto con alcuni dirigenti e, al momento di incontrarli, chiede al suo collega bianco Flip Zimmerman di assumere la sua identità.
Partiamo da un’importante constatazione: è questo lo Spike Lee di cui abbiamo bisogno, non quello che si dedica a progetti piccoli o deludenti in partenza (come il remake di “Old boy” di Park Chan-wook). In “BlackKklansman”, tratto dall’omonimo libro scritto proprio dal poliziotto Ron Stallworth, Spike Lee mette in scena una violenza che è per la maggior parte della durata della pellicola irritante per lo spettatore che inevitabilmente prova empatia per Stallworth e impotenza per un odio talmente forte (e così recente) che non trova spiegazione; mostra una battaglia “vinta” con la forza delle parole (a breve capiamo il perché), una storia che è così incredibilmente attuale e viva. Siamo di fronte ad un regime che sembra a tutti gli effetti essere di derivazione nazista: il Ku Klux Kan non solo manifesta il rifiuto totale e categorico nei confronti dei neri, ma auspica un’uccisione di massa. Esattamente come Hitler riteneva gli ebrei non solo “nemici mortali”, ma una malattia da combattere e annientare, in quanto la Germania non poteva vivere con questo “tumore” all’interno del suo corpo, il Ku Klux Kan cova un astio così intenso da non poter essere sedato se non con l’eliminazione fisica. L’idea è quella di difendere la razza, ripulendola da tutto ciò che non è degno di farne parte.
“BlackKklansman” si riferisce all’America di ieri per parlarci dell’America di oggi. Lee ha uno sguardo lucido e imparziale, a tratti cinico. Non siamo di fronte all’ennesimo tentativo di denuncia che tanti altri film hanno cercato di fare (un esempio recente è “Scappa – Get out”, sebbene abbia vinto il premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale): “BlackKklansman” è drammaticamente vero, forte, necessario. Ron Stallworth è riuscito a fingersi per molto tempo, attraverso contatti telefonici con i dirigenti del Ku Klux Kan, intenzionato a farne parte e addirittura colmo di ammirazione, gratitudine, stima. Proprio per questo abbiamo detto, poche righe fa, che la sua battaglia è stata vinta con la forza della parola, proprio perché per tempo è stato in grado di ottenere credibilità spacciandosi per “uno di loro”. Spike Lee gioca ovviamente sulla “comicità” data dall’assurdità della situazione, in quanto più di una volta il massimo sostenitore del Ku Klux Kan, David Duke, teorico della cospirazione, afferma di riuscire a distinguere dal modo di pronunciare le parole la differenza tra un bianco o un nero. Il fatto che Ron Stallworth, sfruttando la sua intelligenza e prontezza, riesca per molto tempo a deridere (supportato dai suoi colleghi e complici) David Duke, da allo spettatore la forza per affrontare la violenza cui assiste. La pellicola, quindi, è costruita proprio sulla paradossale ironia e sulla ricerca delle radici del male, creando così un prodotto che necessita un’immediata presa di coscienza. Lee punta su pochi aspetti: la storia vera, il sarcasmo, la provocazione, l’America di oggi. Se non fosse sufficientemente chiaro, infatti, Lee non esita nel mostrare le analogie tra gli anni settanta del Ku Klux Kan e l’epoca di Trump.
In “BlackKklansman” il regista più volte sbeffeggia, ridicolizza e demitizza il Ku Klux Kan, i suoi sostenitori e ogni forma di razzismo. Non è tutto. Spike Lee parla anche della storia e della cultura afroamericana, e per questo la pellicola assume anche un’importanza storica. Sicuramente Spike Lee è coinvolto nella vicenda che racconta e pertanto è furioso, ma la rabbia non lo acceca: la sua narrazione è chiara, diretta e di forte impatto. Usa dunque il cinema per demolire le ideologie, per demistificare la supremazia bianca. “BlackKklansman” necessita di essere visto anche più di una volta, per cogliere ogni dettaglio e sfumatura.
Mariantonietta Losanno