LE BOLLE DI SAPONE – prima puntata

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di Elvio Accardocapanno sulla spiaggia LE BOLLE DI SAPONE   prima puntata“Devo fare pipì, e non spegnere la luce, quando torno mi racconti la storia del cow boy Arturo,” disse Gennarino posando l’uomo tigre sul cuscino.

“No, no e no, questa storia già l’ho raccontata un milione di volte, e tutte le sere la stessa cosa, che palle, no, no e no”, rispose annoiato Ninuccio stendendosi sul lettino girando la pagina del suo giornalino a fumetti.

“Ma stasera facciamo che il cow boy Arturo va a riprendersi il cavallo che gli hanno rubato gli indiani, su dai, poi arriva un serpente e…” “ma va, il serpente” rispose Ninuccio, “nell’accampamento indiano non ci stanno i serpenti, ci stanno i cosi, i …, ora basta, vai a fare pipì, domani mi devo alzare presto, voglio dormire”.

 Gennarino usci dalla cameretta e attraversò il breve corridoio passando davanti alla porta chiusa della camera da letto dei genitori, scorse il filo di luce sotto la porta e arrivò in bagno in punta di piedi pensando che i genitori fossero ancora svegli.

Alcuni minuti dopo, Gennarino comparve sulla soglia della cameretta, si fermò e con fare inquisitorio, rivolto a Ninuccio ancora intento a leggere il suo giornalino disse: “perché ti devi alzare presto domani?”

Gennarino e Ninuccio fratelli di sei e nove anni, trascorrevano a Torre Moresca, la loro prima vacanza pasquale. Quell’anno Pasqua arrivava nel tardo aprile, e le giornate erano bellissime e calde. In quel paese di mare, la primavera era sempre un po’ in anticipo e a metà aprile tutte le buganvillee, i gerani e tantissime piante e cespugli che coprivano le dune sulla spiaggia, erano in fiore.

 Lello Caruso, il padre di Gennarino e Ninuccio, aveva ereditato da sua madre, la casa a Torre Moresca, una casa piccola dove lui era nato e dove i suoi genitori avevano vissuto tutta la vita. Suo padre Salvatore, meglio conosciuto col nomignolo di “Tore ‘o franzese” era sempre stato padrone marittimo, da giovane era stato un esperto “corallaro”, che con i suoi due motopescherecci, pescava corallo sulle coste africane, e nei fondali della Sicilia e della Sardegna. Era diventato proprietario di due motopescherecci, il Sant’Antonio e il Pesce persico, e già pensava a un cantiere navale tutto suo, ma i sommergibili tedeschi durante l’ultima guerra a largo di Bosa, a tre miglia dal castello Malaspina, la corallina Sant’ Antonio, fu affondata, dell’equipaggio se ne salvarono insieme a lui solo tre uomini, tutti di Torre Moresca.

 Tore ‘o franzese morì dieci anni prima che Lello sposasse Adele Filomarino, ostetrica a Castellammare, dove risiedeva e lavorava come carpentiere nei cantieri navali. Sua madre, mamma Nina, una donna piccola e vivacissima, mai stanca, sempre pronta a fare torte e casatielli oltre che a raccontare storie d’altri tempi, favole e filastrocche, ai nipoti o a chiunque volesse sentirle.

 Nonna Nina, era figlia di un commerciante, fornitore di ogni occorrente per tutti quei pescherecci che lasciavano il porto per raggiungere coste ricche di corallo, come quelle africane. Era l’ultima di tre sorelle, l’unica ad aver conseguito il diploma, quello di maestra. Le altre sorelle si erano sposate prima di ultimare gli studi. Non aveva mai insegnato, ma da quando aveva sposato “Tore ‘o franzese”, aveva cominciato a scrivere lettere per gli altri, lettere d’amore per giovani fanciulle, lettere di mogli o mamme di marinai naviganti sulle grandi rotte oceaniche, insomma la sua attività di scrivana, nota a tutta Torre Moresca produceva una discreta economia. A quei tempi, tra le due guerre mondiali, scrivere e leggere ancora non era alla portata di tutti.

Nonna Nina era finita a novembre dell’anno prima, a ottantacinque anni, con un ictus. Trasportata in ospedale a Portici, morì dopo tre giorni senza prendere conoscenza.

La casa ereditata da Lello, era di poche stanze, l’ultima di una serie di case e palazzotti di pescatori, poste a ridosso della spiaggia dei “ Cavalieri”, una spiaggia di sabbia un po’ grigia, perché  miscelata a sabbia vulcanica , molto ampia e lunga, e terminava nella scogliera che si inoltrava con un promontorio nel mare, alla punta del quale c’era una torre, eretta nel medioevo per l’avvistamento dei pirati saraceni, ormai però ridotta a un guscio vuoto era questa che dava il nome al paese.

 Solo dune di sabbia trattenute e consolidate da fitti cespugli di ginepro, mirto, rosmarino, lentisco e olivello spinoso, dividevano le case dalla spiaggia, creando una sorta di bassa barriera che arrivava fino ai cumuli di posidonie morte trasportate dalle onde dalla battigia fino ai gozzi, che i pescatori del vicino rione, lasciavano spesso capovolte sulla sabbia. Gusci di legno più grandi e più piccoli, che i pescatori all’alba, facevano scivolare sulla sabbia fino al mare, carichi di reti o palangari e nasse, e tornare a mattino inoltrato con ricciole, saraghi e spigole, da vendere al mercato.

Ninuccio abbassò il giornalino e guardò perplesso Gennarino, pensò di aver detto troppo. “Perché devi alzarti presto?” incalzò Gennarino avvicinandosi al fratello. “ho detto di andare a dormire, se no spengo la luce, vai!” “No, non ci vado, dimmi prima perché devi alzarti presto”. Ninuccio si alzò in fretta chiuse la porta allarmato dalla reazione del fratello. “Zitto, non gridare, si sveglia papà,” disse mettendo l’indice sul naso. Ninuccio con aria di sfida replicò: “e io grido, se non mi dici che devi fare domani, io grido e sveglio papà”, spostando il ciuffo di capelli ispidi e neri dalla fronte.

Ninuccio cedette subito alla minaccia afferrando il fratello per le spalle disse: “abbassa la voce scemo, domani vado con papà a riprendere la nasse che ha messo oggi sotto la scogliera grande dall’altro lato della torre, e m’ha chiesto di andare con lui per aiutarlo a portare il secchio e i remi del gozzo.” “voglio venire anch’io, io porto il secchio tu i remi,” “no, questo è una cosa da grandi, e poi papà l’ha detto a me, tu resti qui con mamma, torniamo presto perché dopo andiamo in chiesa per la messa, e poi a prendere le palme e le facciamo benedire”.

Gennarino girò intorno al suo lettino, prese il suo uomo tigre che aveva lasciato sul cuscino e disse: “io pure sono grande, ora lo vado a dire a papà cosi domani porta pure me a prendere le…”, “fermati” disse Ninuccio mettendosi davanti alla porta, “non svegliare papà, sta dormendo, domani ti sveglio io, cosi se ti vesti presto, puoi venire anche tu , ora papà si arrabbia se lo svegli, e se si arrabbia non porta nemmeno me alla scogliera grande, perciò domani ti chiamo io, tu ti svegli e prendi il secchio, io porto i remi, va bene cosi? Vai a dormire ora, è tardi e ci dobbiamo alzare presto domani, vai, vai”. “posso portare pure l’uomo tigre? lui sa remare, e se cade nel mare non affonda, sa pure nuotare perché è di gomma”. “Si, si lo puoi portare, vai a letto ora, spogliati, spengo io la luce”.

Gennarino si mise a letto e si coprì rimanendo vestito con il suo calzoncino blu a gambe corte con le bretelle che si incrociavano dietro, sulla camiciola bianca.

 “Ma che fai non ti spogli?” disse Ninuccio, “no” rispose Gennarino riponendo l’uomo tigre sul cuscino, “cosi domani faccio prestissimo, mi alzo e sono pronto”.

 Ninuccio spense la luce pensando di aver superato la grana creata dall’intromissione del fratello nei suoi programmi.

La porta della cameretta si apri alle sei e mezza del mattino, senza rumore, Lello si avvicinò al lettino di Ninuccio, e gli poggiò la  mano sulla spalla, Ninuccio aprì gli occhi e vide il padre che gli faceva segno di prepararsi ed uscire ,  silenziosamente come un gatto raccolse i suoi panni, guardò Gennarino che dormiva nel suo lettino girato sul fianco, rivolto alla finestra che dava sulla strada, e nella penombra del primo mattino, sgusciò fuori seguendo il padre che richiuse  la porta senza svegliare Gennarino.

Ninuccio prese i due remi che Lello aveva già portato fuori, e li mise sulla spalla bilanciandoli, la presa gli riuscì al primo colpo e si senti fiero e forte, degno della fiducia che il padre aveva riposto in lui.

 Seguiva in silenzio Lello che portava il secchio in cui aveva messo delle pere, un pacchetto di wafer e una bottiglietta di caffè, che era la colazione che avrebbero consumato a bordo del gozzo. Attraversarono le basse dune, qualche ciuffo di calcatreppola spinosa pungicò i piedi nudi di Lello che non se ne accorse neppure, ma che Ninuccio invece sentì, ma fece finta di nulla, e continuò fino al gozzo in silenzio, mentre il padre   gli raccomandava camminando di evitare di calpestare quei fiorellini viola che pungevano.

 La sabbia era fresca, e i gabbiani sulla riva beccavano un vecchio panino gonfio d’acqua che trasportato dalla breve e calma risacca del mattino, costringeva i gabbiani a rincorrerlo avanti e indietro sul bagnasciuga.

Lello posò il secchio a bordo e i remi sulla panca poi disse a Ninuccio di salire e lui senza fatica spinse per quei pochi metri il gozzo nel mare, saltò su e sistemò i remi negli scalmi, Ninuccio seduto a poppa, sentì il cuore espandersi, si senti più alto, il padre gli sorrise e disse: “io remo in direzione della torre, tu dimmi se vado sempre dritto. Sotto la torre, prima di andare alla scogliera grande, faccio remare a te, vuoi provare?” Ninuccio assenti col capo, senza parlare. La barca si allontanò sulle piccole increspature di un mare calmo e luminoso, verso la scogliera oltre la torre.

Due biciclette cariche di rami di ulivo, portate a piedi da due ragazzi, si fermarono davanti alla piccola chiesa della Madonna di Portosalvo la chiesa dei pescatori di Torre Moresca. Questa, era stata ricostruita due secoli prima, sui ruderi di una chiesetta più antica depredata e distrutta dai saraceni, nella quale si custodivano ex voto e oggetti preziosi, offerti alla Vergine a protezione dei pescatori dai pericoli del mare.

I due ragazzi portarono in chiesa le due fascine di rami di ulivo, dove il prete le avrebbe benedette e poi offerte ai fedeli durante le funzioni religiose previste nella mattinata.

 I ragazzi entrarono nella sacrestia e cominciarono a suonare la campana che segnava l’inizio della prima messa. La chiesa di Portosalvo era lontana dalla spiaggia dei “cavalieri” non più di cento metri, poco distante dalla casa di Gennarino, che ai primi rintocchi, apri gli occhi e si svegliò; affianco a se, il lettino di Ninuccio era vuoto.

Saltò giù dal letto, calzò i piccoli sandali francescani blu, e mentre usciva nel corridoio, sperando di trovare Ninuccio nel bagno, si tirò su le bretelle del calzoncino che durante il sonno erano scese sui fianchi. Nel bagno non c’era, cercò anche in cucina, niente, rimaneva la camera dove dormivano i genitori, in silenzio apri un poco la porta, si affacciò nella stanza, e scorse solo la sagoma della mamma che ancora dormiva. Usci sul terrazzo che dava sulla spiaggia, e li la sua cruda delusione prese forma, il suo cuore si riempi di amarezza, i remi del gozzo poggiati al muro, tra le buganvillee e i vasi di gerani, non c’erano, Ninuccio e il padre Lello se ne erano andati al mare a ritirare le nasse senza di lui. Pensò all’improvviso che se avesse raggiunto il mare velocemente li avrebbe raggiunti, o forse non erano ancora partiti.

Cosi cominciò a correre verso la spiaggia attraversando le dune e i cespugli di mirto e di sparto, giunse fino ai cumuli di posidonie morte accumulate sulla sabbia, arrivò col fiato in gola fino al bagnasciuga passando accanto agli altri gozzi fermati li sulla sabbia in attesa di riprendere il largo insieme ai pescatori.

 Si fermò ai margini del bagnasciuga, guardò il mare da tutti i lati, solo il lungo promontorio con l’antica torre, interrompeva da un lato l’orizzonte, che tagliava netto l’azzurro, quello di sopra più chiaro e più uniforme del cielo e quello di sotto più scuro e più vario del mare.

 Non scorse nessuna imbarcazione, chiamò gridando il fratello Ninuccio, poi si arrese, un’ombra lieve di rancore attraversò i suoi occhi neri, ma non durò tanto, pensò con dispiacere che nella fretta di arrivare alla spiaggia, aveva dimenticato di portare con sé “l’uomo tigre”.

Gennarino, aveva i capelli tagliati corti, ma una frangetta di capelli neri e intrattabili gli arrivava sulla fronte oltre le sopracciglia.

 Occhi scuri come il guscio di un titano, un nasino che nonna Nina diceva: “indisponente” quando lo carezzava sulle guance ricche di lentiggini, e labbra sottili sempre pronte a sorridere. Secco, ma con muscoli pieni di energia inesauribile, come quella dei gatti di strada. Solo, su quella spiaggia non ancora pronta all’estate vesuviana, cominciò a sussurrare la sua formula magica, il suo mantra personale e segreto che avrebbe allontanato, come un vento lieve, la delusione provata al risveglio.

Era una filastrocca che nonna Nina gli aveva insegnato, raccontandogli vecchie favole che lei stessa inventava o che trasformava, ogni volta che la sua fantasia lo richiedeva. Prese fiato e fissando il mare verso la torre moresca, cominciò:

una furmicula pass pass

se ne sagliette a’dinto a nu fuoss .                              

Ddoie furmicule  appriess appriess

s’avviarono ‘nzuoccol senza press.

Tre furmicule  dopp’a cchell

purtarono ‘u ppane c’a’ murtatell.

Quatt furmicule cu e sacc mman

carriavan a‘nzogna cu o’ ssale e o’ ggran.QQQ

Cinc furmicule cu’ ‘na spasella

Pigliajene l’uoglio a farina e a tiell.

Sette furmicule cu’ o’ tira e o’ venga

vuttavano ‘nnanz nu carro e semmenta

Otto furmicule capace abbastanza

currevano a scianco a nu’ vuotto c’a’ panza.

Nove furmicule devono ‘a voce

trascenavano arret nu’ carro cu’ e‘ noce.

Dieci furmicule dicettero basta!

troppa fatica pe’ nu’ piatt ‘e pasta.

Esorcizzata la sua amarezza, Gennarino s’incamminò lungo la spiaggia in direzione del promontorio, si tolse i sandali e entrò con i piedi nell’acqua dove le impronte dei suoi piedi comparivano e scomparivano risucchiate dalle brevi onde, i piccoli sandali appesi alle sue dita, dondolavano ad ogni passo.

 Si fermò dopo pochi passi si girò e guardò in direzione della sua casa, la buganvillee del suo terrazzo era in piena vista,  si accorse allora che le sue impronte sul bagnasciuga sparivano appena dopo averle fatte, si spostò di qualche passo sulla sabbia più asciutta, li, rimanevano intere e profonde, entrò appena nell’acqua, e ritornò velocemente camminando all’indietro, le orme sparivano, rimanevano solo quelle che l’acqua non raggiungeva col suo andare e tornare, ripetette più volte questo  gioco con l’onda, e sorridendo di gusto, si avviò correndo , entrando e uscendo velocemente dall’acqua cosi da lasciare orme visibili solo a tratti, immaginando di essere uno strano granchio con zampe lunghissime.

 Attraversò, saltellando tra le poche barche tirate a secco, i mucchi di posidonie trasportate dalle onde e lasciate a marcire sulla spiaggia.

 Tra le dune coperte di mirto, scorse una baracca dipinta di azzurro, scolorita dal tempo e dall’aria marina, la curiosità lo vinse immediatamente, superò le basse dune, e arrivò davanti alla baracca.

La porta era socchiusa, e di lato partiva una rete da pesca appesa con i galleggianti rossi, a delle canne infilate nella sabbia, era stesa ad asciugare ancora con ciuffi di alghe tra le maglie, la rete seguiva un percorso un po’ a zig zag, e le canne ne segnavano le svolte.

Apri lentamente la porta fatta di vecchi assi di legno, e si affacciò furtivamente, non c’era nessuno, solo un odore di pesce e di vernice lo colpì mentre adattava la vista all’ombra fresca e scura.

Scorse nel fondo una brandina con una coperta, riempiva tutta la parete della baracca, e sul lato uno scaffale pieno di barattoli di vernice, dall’altro lato, mensole di legno con sugheri e rotoli di lenze da pesca e qualche candela, sotto uno specchio e per terra una cassa di legno su cui era poggiata un’ancora, un pezzo di catena e corde arrotolate, Il tavolino al centro della piccola baracca non lasciava spazio per nient’altro.

Gennarino entrò, girò intorno al tavolino e si sedette sulla brandina, calzò i sandali blu girando lo sguardo su quegli oggetti, che vedeva misteriosi e diversi da quelli che già conosceva, guardò lo specchio e le candele come se fosse la prima volta. Quella baracca gli sembrò il posto più giusto per inventare i suoi giochi, le sue storie.

 Diventò subito un castello fatato, il palazzo dell’uomo tigre, la timoneria di una nave pirata, il piccolo specchio un oblò di un sottomarino, i barattoli di vernice allineati sullo scaffale bombe da lanciare ai mostri di altri pianeti, il mozzicone di candela un microfono per parlare agli indiani.

Fine della prima puntata…a domenica prossima