“TRE PIANI”: ADDIO ALLE DIVAGAZIONI IRONICHE DI NANNI MORETTI

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di Mariantonietta Losanno 

“Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze del “disamore”. Nell’ultima pellicola di Nanni Moretti nessuno è capace di amare, e le conseguenze sono disastrose. Al di là della rappresentazione dell’universo familiare, sempre esplosivo e contraddittorio, la poetica di Moretti ruota spesso intorno all’esigenza, avvertita violentemente da alcuni personaggi dei suoi film, di trovare una risposta concreta a una realtà circostante che conduce alla paralisi dei rapporti umani. Ehskol Nevo, ha preferito che in quei tre piani le storie restassero aperte; Nanni Moretti, invece, sviscera l’incapacità di amare – e il profondo senso di colpa – dettagliandone tutti gli effetti. I tre piani del romanzo si riferiscono alla ripartizione freudiana in Es, Io, e Super-Io; al primo risiedono tutte le pulsioni, a quello di mezzo l’Io che cerca di conciliare i desideri e la realtà, e al piano più alto, il terzo, abita “sua altezza” il Super-Io, che richiama all’ordine con severità e impone di tenere conto dell’effetto delle nostre azioni sulla società. A Tel Aviv sono le persone che abitano i piani a darci l’idea di cosa siano queste istanze freudiane, attraverso le parole e le azioni che costruiscono la trama del romanzo; nell’universo morettiano, le ripartizioni sembrano essere suddivise in base al grado di angoscia che, addirittura, cresce proporzionalmente ai tre livelli. Al primo piano, allora, troviamo un “disamore” che risente di quell’inconsapevolezza che caratterizza l’Es e che contiene tutto ciò che viene rimosso e in cui gli istinti hanno il predominio: è quello di Riccardo Scamarcio che aggredisce un vicino di casa pensando che abbia potuto fare del male a sua figlia, ma poi, finisce per trovarsi nella stessa situazione – seppure con diverse modalità e diverse responsabilità – con la nipote adolescente del malcapitato. Al secondo piano sembra esserci un equilibrio maggiore: Alba Rohrwacher combatte contro i suoi disturbi psichici nell’eterna attesa di un marito assente. Al terzo piano, invece, le colpe salgono di grado e ci si ritrova di fronte all’espressione più alta (e “malata”) dell’amore malvissuto. Naturalmente, al livello del Super-Io non poteva che esserci Nanni Moretti, insieme a Margherita Buy: i due rivendicano il disprezzo per un figlio difficile e, probabilmente, mai amato.

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Il problema (e la fortuna) di Nanni Moretti è che può essere paragonato solo a se stesso. E, dato il suo egocentrismo che domina la scena, non può che uscirne illeso (ma non vincitore). “Tre piani” è il primo film in cui non c’è il minimo spunto ironico e in cui non c’è speranza. Una speranza che animava persino le opere più tragiche, che viveva persino in Michele Apicella e che portava lo spettatore ad assecondare il disperato sarcasmo di “Bianca”. Apicella sentiva il bisogno di “difendersi da tutto quel dolore” liberandosene; in “Tre piani” sembra che il dolore venga addirittura cercato. Forse perché si tratta del primo progetto basato su un soggetto non suo, o forse perché, soprattutto dopo “Mia madre”, è evidente il distacco da un tipo di cinema personale e autobiografico. “Tre piani” è un’opera in cui si soffre “da soli”, è un’opera fredda che, cercando di “svuotare” i propri protagonisti finisce per svuotare anche se stessa. Questo cambio di indirizzo di Nanni Moretti disorienta lo spettatore facendolo scontrare con una durezza ingiustificata e implacabile; piuttosto che collegare i destini dei suoi personaggi, sovrappone un dolore all’altro perdendo controllo e rinunciando alle sue esasperanti – ma “tenere” – divagazioni ironiche. 

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Un cambio di rotta che, addirittura, fa azzardare paragoni con le opere corali di Özpetek: perché Nanni ha deciso di “rimettersi al mondo” cambiando così tanto indirizzo? E soprattutto perché sembra che sia diventato incapace di raccontare efficacemente il mondo? Quel gusto intellettuale di “Palombella rossa” sembra solo un ricordo passato. Manca la componente più forte del cinema di Nanni Moretti: l’autoironia. Proprio lui che ha sempre fatto dell’ “umorismo isterico” la sua cifra stilistica. E invece, in “Tre piani”, si prende terribilmente sul serio, dicendo addio alla poesia. Probabilmente Moretti si difenderebbe da queste accuse – se mai pensasse di averne bisogno – dicendo di essere stanco di raccontare quello che gli gira attorno e difendendo la sua irrequietezza definendola un segno di vitalità. Sarebbe difficile credergli: tutte le sue opere hanno una trama, ma sono sempre e comunque film di Nanni Moretti. “Tre piani”, invece, non sembra essere suo. Non traccia linee da percorrere, non mostra empatia, si nasconde dietro quella “borghesia piccola piccola” – che Monicelli aveva saputo dissacrare – non riuscendo a trasformare l’infelicità, ma adagiandosi nel dolore. In piu, Moretti ci lascia senza Moretti nell’affrontare tutta questa sofferenza. Tutto resta incastrato nel palazzo e in una rappresentazione immobile e irrigidita. È possibile che Moretti abbia realmente ceduto alle ossessioni che quotidianamente affossano? Eshkol Nevo, con la sua pregiata costruzione narrativa, ha dimostrato sensibilità nel condurre un’indagine sulle paure e sugli errori umani; Moretti, invece, si autocondanna e “trasforma” tutto quello che ha reso il suo cinema “solo ed unicamente suo”.