“È STATA LA MANO DI DIO”: “ATTRAVERSARE” IL DOLORE SENZA PRETENDERE DI LIBERARSENE

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di Mariantonietta Losanno

Una commedia in forma di tragedia, o una tragedia in forma di commedia: un’opera che può riuscire solo ad artisti che hanno una visione della vita “completa”. Condividendo ricordi dolorosi ed esaltanti, Sorrentino non vuole imporre il suo film come “liberatorio”: non ci si libera di certe cose, ma metterle in circolo, farne racconto, aiuta sicuramente a conviverci. Accettando, così, che non si potrà riavere indietro l’amore perduto, ma andando avanti “nonostante” (come suggeriva Massimo Gramellini nel suo racconto autobiografico “Fai bei sogni”) si abbia paura di vivere. 

“Non sei più là dov’eri, ma sei ovunque io sia”, ha scritto Victor Hugo. Sorrentino si concede la possibilità di ricordare, di attraversare il dolore. Così facendo è come se “si riscattasse”: “Per questo voglio un’altra vita, per questo voglio fare cinema”, ha spiegato il regista in un’intervista. Ma non solo: è come se interagisse con la sofferenza impedendole di diventare un verdetto inappellabile, una sconfitta. Attraverso il dolore, allora, ritrova se stesso e anche il tempo perduto. 

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Napoli degli anni Ottanta sogna. C’è il Mare onnipresente che avvolge tutto, c’è Maradona che riscatta la città “rivoluzionandola”, c’è Fellini che sceglie le comparse per il suo film. Ci sono anche Roberto Rossellini, Sergio Leone, Antonio Capuano. È in questo universo di personaggi eccentrici e sopra le righe, che Fabio prova a conoscere se stesso; si chiede cosa farà dopo la maturità classica, inizia ad approcciarsi alle donne nonostante lo intimidiscano, vive il sogno di vedere Maradona giocare con la maglia del Napoli. Dopo la parentesi televisiva di “The New Pope”, Paolo Sorrentino torna dietro la macchina da presa per creare arte partendo dal dolore. Se è vero che da certe sofferenze non ci si libera mai, come si “combatte”, allora, per restare vivi? Per non sentirsi in colpa di esserlo, per riappropriarsi di se stessi (o, in questo caso, per “costruire” un’immagine di se stessi ex novo), e per continuare ad amare? Sorrentino si rifugia nel Mare, una distesa selvaggia, libera, senza costrizioni. Non c’è, però, libertà senza forza. Non si “resta a galla” se “non si lotta”.

Se è vero, allora, che da certi dolori non ci si libera, per crescere davvero si smette di pretenderlo: provando a ricordare l’ultima volta in cui si è stati felici per darsi forza, non per farsi abbattere; cercando di contrastare l’odio che subentra quando si prova ad individuare un colpevole; smettendo di colpevolizzarsi per qualcosa di indefinito, per non essere riusciti a “trattenere” le persone amate. Se da una parte si contrasta il dolore provando ad accoglierlo, dall’altra si trova la forza per costruire le proprie idee. Fabio sogna il cinema, ma non basta: deve volerlo ad ogni costo. Perché l’unica strada per combattere il dolore è continuare a credere in qualcosa; continuare a farlo nonostante non ci sia qualcuno a “fare il tifo”, smettendo di credere che la morte sia davvero la fine di tutto. 

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Sorrentino si mette a nudo mostrandosi inquieto, insicuro, inadeguato. Non tenta nemmeno la strada dell’“eroe solitario che basta a se stesso”, parlando, invece, di come il dolore possa essere gridato o vissuto in privato, ma resta comunque dolore. Ed “È stata la mano di Dio” quella sofferenza la risveglia, la rende viva. Un esempio di “cinema privo di difese”, che si concede allo spettatore passando da battute taglienti (volutamente non edulcorate) a momenti di pura angoscia. Fellini aveva cercato di leggere dentro se stesso con “8½”, realizzando un film sullo smarrimento di un artista che affronta un lacerante travaglio interiore prima della ripresa della propria attività creativa, nel dubbio di avere esaurito completamente se stesso. Fellini si psicanalizzava, raccontava la sua intima vertigine, dopo uno sforzo creativo che lo aveva fermato, quasi gli aveva sbarrato la strada, tanto da dover fuggire “via cielo”; trasfigurava le sue emozioni interiori per analizzarsi con sincerità, per “liberarsi”. Sorrentino non usa un suo doppio – come è stato per Fellini con il personaggio di Guido Anselmi – ma si serve proprio di se stesso. C’è così tanta verità nel suo racconto che potrebbe essere persino ritenuto come uno “slancio immorale”; non ci sono compromessi nell’ esprimere il dolore, la rabbia, l’ironia. Non ci sono né filtri né distanze: Sorrentino prima si “disunisce” e poi si riappropria di sé offrendosi al suo pubblico. Se non fosse stato per quella “mano” non ci sarebbe stata alcuna unione.