di Mariantonietta Losanno
Quella di “Tom à la ferme” è una realtà che schiaccia e fa vibrare di vitalità allo stesso tempo, come solo la “vita vera” sa fare; Dolan si sofferma sulla “fine” senza, per questo, prendere posizione drastiche. Accettazione e mai rassegnazione: temi che ritorneranno in “È solo la fine del mondo”, in cui quel “solo” viene utilizzato per indicare un modo per esorcizzare il dolore, non rendendolo assoluto. È “solo” la fine, è “solo” la presa di coscienza che non ci sarà necessariamente un tempo per sistemare quello che non è andato bene, rivivere certi momenti e recuperare le occasioni perse. “Tom à la ferme” anticipa questi concetti e si colloca tra il delicato “Laurence Anyways e il desiderio di una donna…” e il devastante “Mommy”. Ci troviamo in una zona rurale del Quebec (molto claustrofobica) in occasione del funerale del compagno di Tom, interpretato dallo stesso Dolan. La famiglia, però, non si aspetta di trovarlo lì, perché all’oscuro della relazione del figlio; tra Tom e il fratello del suo compagno si instaura un legame ambiguo e violento, di repulsione/attrazione.
Un mondo rurale “piatto” viene sconvolto dalla trasgressione, dalle pulsioni proibite e dalla perversione liberatoria. In uno scenario che ricorda l’oppressione di “Scappa – Get Out”, “Shutter Island”, “La cura dal benessere” (associati solo per il senso di claustrofobia), con echi di cinefilia che vanno da Kubrick a Polański e da Hitchcock a Fassbinder, “Tom à la ferme” rappresenta ’elogio della “concretezza inverosimile”. Dolan mantiene costante la tensione narrativa ed emotiva, che non esplode mai completamente, ma che contribuisce a rafforzare un’atmosfera tesa ed instabile, dovuta alla perfetta caratterizzazione dei personaggi, sempre sul punto di essere sopraffatti dai loro istinti. Se il delirio può essere pieno di sfumature e la follia può avere una logica, allora ci può essere una “realtà irreale”: il contesto che si profila sin da subito volutamente confuso riflette il contrasto tra attrazione e repulsione dei due protagonisti. Lo spettatore, allora, viene persuaso al punto da assorbire quel legame “perverso” e provare quella stessa sensazione di fascino/rifiuto: quella che sembra essere una famiglia “che non esiste” è, in realtà, la rappresentazione (esasperata) di una famiglia alle prese con l’accettazione del dolore e del diverso. Il cinema di Dolan sconfina in un’intimità inequivocabilmente vera: “Tom à la ferme” è la “fantasiosa” drammatizzazione dello scontro tra due mondi incompatibili (quello della città e quello della campagna), e dell’impatto con il lutto. Ogni cosa viene distorta per poter essere analizzata nel suo eccesso: il legame masochista vittima-persecutore (non scevra di una forte tensione erotica), mette in luce un’infelicità che sfocia in comportamenti morbosi e patologici.
Quello che sconvolge di più, però, è quello che non vediamo: Xavier Dolan insegue un’idea di cinema che sa materializzare i fantasmi interiori per mettere in risalto le contraddizioni più profonde e i paradossi del desiderio. Tom è schiavo della fattoria perché nutre la speranza di poter diventare l’amante del suo compagno o viene, in realtà, manipolato? Quella che appare come una realtà chiusa e claustrofobica è, invece, la rappresentazione di una maturità narrativa (e stilistica) che osa indagare l’ambiguità dei desideri e si muove liberamente, sul piano visivo e su quello drammatico. “Tom à la ferme” è un’opera “che grida”, intelligentemente onirica, che crea la sua identità a partire dalla diversità. Un’opera che vive di contrasti ed eccessi, di musiche disturbanti e colori cupi: in un vortice di emozioni che si distacca drasticamente dal cinema di intrattenimento, Dolan ci (ri)mette in contatto con i sentimenti più profondi.
Nessun lieto fine, dunque; o meglio, nessun intento di voler suggerire un lieto fine. “Tom à la ferme” è la rappresentazione di un cinema nervoso e concitato, che vuole essere imperfetto e criptico. Un cinema ossessivo e ossessionante, da cui non si può scappare; ci troviamo di fronte ad un pericolo imminente che pian piano si materializza e a cui poi, non ci si può sottrarre: una tensione che ricorda, inevitabilmente, l’estetica raffinata, la simbologia e la tensione calibrata al punto giusto de “Il coltello nell’acqua”.